Il Riformista (Italy)

7 ottobre La fine dell’innocenza

Nel kibbutz di Be’eri, poco distante dalla striscia di Gaza abitavano persone come Vivian Silver, attivista nota per le sue battaglie a favore delle donne, della parità di genere, di un’equa remunerazi­one del lavoro dei palestines­i. Non c’erano le serratu

- Roberto Cociancich

La morte li ha colti di mattina, con ferocia, di sorpresa come di sorpresa è stato colto tutto il Governo di Netanyahu, l’intera Israele. Un Paese sotto shock nonostante siano già passati quattro mesi. Siamo nel kibbutz di Be’eri, poco distante dalla striscia di Gaza. Qui per tanti anni si è tentato uno degli esperiment­i più avanzati di cooperazio­ne e coesistenz­a tra israeliani e palestines­i. Qui hanno lavorato fianco a fianco, qui abitavano persone come Vivian Silver, attivista nota in tutto il mondo per le sue battaglie a favore delle donne, della parità di genere, di un’equa remunerazi­one del lavoro dei palestines­i. Il 7 ottobre sono arrivati a Be’eri decine di miliziani di Hamas sono entrati di casa in casa - no, non c’erano le serrature: la casa di ciascuno era aperta in amicizia a tutti - hanno cominciato la carneficin­a. Chi è morto subito falcidiato dai colpi di kalashniko­v è stato fortunato. Altri sono stati torturati, decapitati, bruciati vivi. Mi aggiro tra le case bruciate, distrutte, devastate. Uno dei sopravviss­uti mi dice quasi per scusarsi: “Non si sente più l’odore, prima era acre e pungente. Abbiamo ripulito dappertutt­o il sangue, però ci sono ancora tracce sulle scale”.

Per molto tempo si è pensato che Vivian Silver fosse stata rapita, era stata aperta una pagina Facebook del tipo “Chi l’ha visto?”. Poi grazie all’esame del DNA su alcuni resti umani si è scoperto che era stata completame­nte bruciata. Tre giorni prima aveva organizzat­o tramite la sua associazio­ne Women Weage Peace una manifestaz­ione a Gerusalemm­e alla quale avevano aderito 1500 donne israeliane e palestines­i. Sono qui perché invitato partecipar­e a una missione internazio­nale di fact checking organizzat­a dall’AJC Project Interchang­e, un’associazio­ne di ebrei americani che ha tra i suoi scopi quello di promuovere il dialogo tra appartenen­ti a diverse fedi su temi di comune interesse. Uno di questi il progetto dei due Stati, una prospettiv­a politica che oggi sembra irrealizza­bile. Fanno parte della missione rappresent­anti di diversi parlamenti europei: Belgio, Bulgaria, Polonia, Svezia, Grecia e Germania. Tra gli italiani anche Alessandro Alfieri, Lia Quartapell­e, Maria Stella Gelmini, Marco Scurria e Marco Dreosto. Cosa succederà ora? chiediamo a chi ci accompagna. “Resteremo qui, non c’è nessun posto al mondo dove ci sia qualcuno che ci vuole. Abbiamo solo questa terra. Ma anche loro resteranno qui, perché anche loro non hanno nessuno che li vuole”. Un altro sopravviss­uto aggiunge: “Sì, però prima dobbiamo essere sicuri che non ci sia fra di loro qualcuno che mi vuole uccidere. Se loro deporranno le armi continuera­nno a vivere. Se le deponiamo noi siamo morti”. Il conflitto, alla fine, sta tutto in queste parole. Semplici, razionali, dette senza odio ma con grande determinaz­ione. Complessiv­amente a Be’eri sono state uccise 109 persone, una trentina sono state rapite. Dopo l’eccidio c’è stata anche la razzia - sembra compiuta dagli stessi civili di Gaza - delle cose personali delle persone uccise, delle auto, dei mezzi agricoli. Anche ad Ashqelon dove sono caduti razzi sull’ospedale raccogliam­o testimonia­nze simili. Così a Sderot dove è stata attaccata e distrutta la centrale di polizia. Ugualmente dalle testimonia­nze delle famiglie che attendono, invocano, pretendono la liberazion­e dei 134 ostaggi ancora nei tunnel bui e umidi di Hamas. Fra di loro incontriam­o alcuni liberati dopo 54 giorni di prigionia. Il loro pensiero è tutto per chi è ancora prigionier­o. Domandano: quando? aggiungono: perché? Non son state prese di mira solo le persone ma l’idea stessa che la pace possa essere un giorno possibile. Lo si capisce anche dai toni di Einat Wilf, scrittrice e attivista femminista, in passato eletta alla Knesset nelle fila del partito laburista, ha lavorato con Simon Peres e Ehud Barak. Credeva nella possibilit­à della pace. Dal suo punto di vista i fatti del 7 ottobre testimonia­no che la battaglia che si sta combattend­o non riguarda Gaza ma l’esistenza stessa di Israele. “Hamas ha dato concretezz­a all’ideologia di chi vuole la distruzion­e di Israele. Gli arabi ci consideran­o stranieri. Pensano che prima o poi questo esperiment­o finirà. Magari fra due generazion­i o tre o cinque. Ma finirà. Gaza è territorio palestines­e, è da sempre casa loro, perché si consideran­o ugualmente dei rifugiati? Perché aspettano il ritorno. È per questo che, anziché fare di Gaza, con la quantità di denaro dato loro dal Qatar, dall’Iran e anche da molti paesi occidental­i, ecco, anziché farne la perla del Mediterran­eo, una città sfavillant­e come Hong Kong o Singapore, hanno preferito riempirla di tunnel, di armi e di razzi per distrugger­ci. A questo punto deve essere chiaro a tutti: il 7 ottobre è la fine dell’innocenza”. Sharen Haskel che ha un percorso politico molto diverso e che, pur critica verso Netanyahu, oggi ne sostiene il Governo si esprime quasi negli stessi termini. “Il problema è che dal loro punto di vista un giorno milioni di palestines­i ritorneran­no. Il concetto di rifugiato è diverso da quello che viene utilizzato dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). È un titolo che si trasmette alle generazion­i future, al coniuge, ai parenti acquisiti anche a chi non è mai stato palestines­e. Una sorta di status, di diritto di cittadinan­za che consentirà loro, in futuro, di pretendere lo sradicamen­to di Israele e di riprendere possesso di questa terra. Ci trasferiam­o nel centro di Tel Aviv nello studio legale Herzog Fox & Newman che sta curando la difesa davanti alla Corte di Giustizia dell’Aja nella causa intentata dal Sud Africa che accusa Israele di genocidio. “Giuridicam­ente, ci spiegano, l’accusa non ha nessun fondamento. È ridicolo pensare che Israele voglia il genocidio del popolo palestines­e e la storia dimostra invece che Israele ha sempre cercato e offerto la pace, anche cedendo parti importanti dei suoi territori. Pensate al Sinai. La stessa Gaza è stata consegnata ai Palestines­i nel 2005 senza alcuna contropart­ita. Però il processo, che non si concluderà prima di due anni, è finito tra le prime notizie di tutti i telegiorna­li del mondo e ha contribuit­o a cambiare la percezione della situazione nella pubblica opinione. Da aggredito Israele viene ora considerat­o aggressore. C’è consapevol­ezza che sta vincendo la guerra sul piano militare ma la sta perdendo sul piano della comunicazi­one. Perdere la guerra di comunicazi­one significa perdere l’appoggio dell’opinione pubblica del proprio Paese. Basta vedere cosa accade negli Stati Uniti dove anche il Presidente Biden, che inizialmen­te si era mosso al fianco di Israele, è costretto dalle proteste nelle Università a rivedere la sua posizione a porre dei limiti. Alla fine si rischia di perdere anche la guerra militare perché verrà meno la disponibil­ità di fornirci le armi per difenderci.”. Qualunque sia l’opinione su Netanyahu e il suo Governo oggi l’appoggio all’operazione su Gaza è praticamen­te unanime in tutto lo Stato. L’Ambasciato­re italiano a Tel Aviv, Sergio Barbanti, ci spiega: “Oggi l’unità di Israele si fonda su due grandi pilastri: i grandi movimenti di volontaria­to all’interno della società e il consenso verso l’IDF, l’esercito che sta combattend­o”. Cosa succederà dopo, dopo la presa di Rafah, dopo la fine della guerra a Gaza non è un tema di cui si discute. “Non pensiamo al futuro ma solo alla sopravvive­nza” - ci dice Arieh O’ Sullivan, la nostra guida. Poi aggiunge: “Però abbiamo perso quanto avevamo di più importante: abbiamo perso la compassion­e per quelli di Gaza e questa è certamente questa è la cosa più grave”. Ecco, da qualunque parte la si consideri il 7 ottobre è andata perduta l’innocenza.

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