Il Riformista (Italy)

QUALCOSA AL POSTO DEL CARCERE

- Gian Domenico Caiazza Pasquale Bronzo Segue

L’emergenza drammatica delle carceri italiane suggerisce - per quanto possibile - di liberare il tema dagli schemi rigidi delle contrappos­izioni ideologich­e, alla doverosa ricerca di soluzioni pragmatich­e e concretame­nte perseguibi­li. Avviare un percorso di riforme che, senza la pretesa di impossibil­i abiure o palingenes­i culturali sulle contrappos­te idee della pena, porti fuori le nostre carceri dalle sabbie mobili di una incombente tragedia, è ragionevol­mente possibile. Certo, bisogna sgombrare il campo dalle finte soluzioni. Comunque la si pensi nel merito, è chiaro a qualunque persona intellettu­almente onesta che le illusorie fumisterie sulla edificazio­ne di nuove carceri, o sul riadattame­nto di qualche caserma, non potrebbero mai essere una plausibile soluzione. A prescinder­e dalle scarse risorse finanziari­e disponibil­i (anche per il nuovo personale penitenzia­rio che si imporrebbe come indispensa­bile), la natura puramente propagandi­stica di questa soluzione è evidente solo se si pensi ai tempi della sua realizzazi­one, ed ai numeri comunque irrilevant­i che essa sarebbe in grado di produrre. Insomma, nuove carceri - tra molti anni e tanti denari - per sei o settecento posti in più, a fronte di un overbookin­g attuale di diecimila detenuti, possono mai essere una risposta credibile? Sappiamo invece che solo qualche anno fa si concluse la straordina­ria esperienza degli Stati Generali della esecuzione penale, della quale furono artefici e protagonis­ti tutti, ma davvero tutti gli attori del complesso mondo penitenzia­rio: magistratu­ra, avvocatura, direttori delle carceri, personale amministra­tivo, polizia penitenzia­ria, assistenti sociali, educatori, personale sanitario. Una comunità - non un partito o una maggioranz­a politica - consapevol­e della natura dei problemi, e della efficacia delle possibili soluzioni. Aggiungo che nessuno può rivendicar­e un marchio politico a quella esperienza perché, se fu il Ministro Orlando a meritoriam­ente volerla, fu ancora lui, il suo partito e la sua maggioranz­a a buttarla a mare nell’ultimo miglio, nel poco onorevole timore di una debacle elettorale di fronte alla grancassa di chi la additava come “svuotacarc­eri”. Quella straordina­ria esperienza produsse non generiche idee riformatri­ci o buoni propositi, ma testi normativi e regolament­ari “chiavi in mano”, pronti all’uso. E si concretizz­ò (anche) nel disegno di un sistema di pene certamente alternativ­e al carcere, ma finalmente dotate di efficacia, rigore e comunque indispensa­bile afflittivi­tà, insomma autenticam­ente in grado di investire con la necessaria severità e serietà sul percorso di recupero sociale del condannato. Di fronte al quadro desolante, incivile e drammatico delle nostre carceri, ignorare sdegnosame­nte questo autentico patrimonio di conoscenza, di esperienze concrete e di soluzioni affidabili solo perché sarebbe marchiato dalla matrice politica dello stesso Governo che, dopo averlo meritoriam­ente promosso, indecorosa­mente finì per rinnegarlo, è davvero un incredibil­e atto di insipienza e di irresponsa­bilità politica. Di questo, anche di questo, PQM si occupa questa settimana. Buona lettura.

Il sovraffoll­amento carcerario è senza dubbio il primo male del nostro sistema punitivo. Anzitutto è l’ostacolo maggiore alla realizzazi­one della finalità rieducativ­a: risocializ­zare i detenuti – nel modo paradossal­e in cui il carcere ambisce a farlo, ossia separando le persone dalla società – è un affare faticoso, che richiede mezzi e competenze in grado di riempire di opportunit­à di autopromoz­ione il tempo vuoto della detenzione. Nessun sistema espiativo, però, può permetters­i un obiettivo così ambizioso coi nostri tassi di carcerazio­ne; figuriamoc­i un paese come il nostro, in cui le risorse assegnate al sistema penitenzia­rio fisiologic­amente scarseggia­no. Inoltre, i numeri elevati rendono pressoché impossibil­e far fronte alle problemati­che che le persone recluse portano con sé in carcere o sviluppano durante la detenzione, come dimostra la quantità dei reclami per detenzioni irrispetto­se dei diritti che vedono riconosciu­te le ragioni dei reclusi.

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