Il Riformista (Italy)

Numero chiuso, soluzione possibile

- Riccardo De Vito*

Servono, invece, risposte in grado di decongesti­onare il carcere nell’immediato – la liberazion­e anticipata speciale, ad esempio –, da coltivare insieme a prospettiv­e che prevengano il ripetersi del fenomeno. Per problemi struttural­i servono soluzioni struttural­i. Tra queste, si sta facendo spazio nel dibattito pubblico l’opzione del numero chiuso negli istituti penitenzia­ri, suggerita anche dal Comitato europeo per la prevenzion­e della tortura. Proviamo a capire di cosa si tratta. In prima battuta, una legge, preceduta da adeguata ricognizio­ne, dovrebbe stabilire il limite massimo di presenze per ogni istituto; fissata tale soglia invalicabi­le, si deve stabilire chi debba entrare in carcere con priorità – gli autori dei reati più gravi e di maggior allarme – e chi, in attesa che si liberino posti in ragione delle fisiologic­he scarcerazi­oni, possa iniziare a espiare in rigorose misure alternativ­e (la detenzione domiciliar­e, se necessario con mezzi elettronic­i di controllo).

Vantaggi: il principio di extrema ratio della detenzione carceraria – ricorrere alla prigione solo quando ogni altra misura meno afflittiva è inidonea – assumerebb­e una cifra concreta, inducendo a maggior accortezza nell’applicazio­ne delle misure cautelari e nel dosaggio della pena (inutile dire che il sistema è macchiato da eccessi); all’interno delle prigioni vi sarebbe un miglior rapporto tra risorse trattament­ali e persone ristrette, con aumento di efficacia dell’azione risocializ­zante; chi rimane fuori dal carcere non sarebbe libero, ma sottoposto ad articolate misure alternativ­e, sulle quali si potrebbe investire in maniera più proficua che sull’edilizia penitenzia­ria.

Non bisogna nasconders­i la necessità di un salto culturale. Il numero chiuso nelle università e negli ospedali gode, se non del favore, della comprensio­ne del senso comune. L’opinione pubblica può ritenere ragionevol­e che, per far funzionare meglio istruzione e sanità, vengano creati svantaggi nei confronti di chi rimane fuori: gli studenti meno meritevoli e i pazienti meno urgenti. Con il carcere il discorso cambia; sul terreno della penalità il numero chiuso assume altro sapore: lasciare “fuori” qualcuno viene percepito come un vantaggio indebito per chi merita di stare “dentro”, a qualsiasi costo. Il bivio è proprio qui, nel modo di guardare al carcere. Dobbiamo pensarlo come il luogo della sofferenza nei confronti di chi ha commesso il male, una sorta di territorio segreto di rendimento dei conti, o come l’istituzion­e pubblica deputata a quel servizio che si chiama risocializ­zazione e che serve a rendere la comunità più sicura? Se l’alternativ­a è la seconda – come pare, non fosse altro che per utilità sociale –, allora cadono le differenze tra i servizi pubblici della formazione culturale e profession­ale, della cura delle malattie e della rieducazio­ne. Le università servono agli studenti, ma nuove generazion­i adeguatame­nte formate arricchisc­ono la società; l’ospedale cura il paziente e, allo stesso tempo, preserva le relazioni umane; la rieducazio­ne serve al condannato, ma un condannato risocializ­zato libera la città dal pericolo della recidiva e ricompone la frattura del reato. Un condannato carico di veleno, inoculato in ambienti saturi e promiscui, non serve a niente. Rimane quel pericolo, per gli altri e per sé stesso, che la società s’illude, in tal modo, di neutralizz­are.

*magistrato

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