Il Riformista (Italy)

LA CASA CIRCONDARI­ALE CHE FUNZIONA

Quella in cui ci sia sempre una contaminaz­ione, in cui i detenuti possono essere messi alla prova con misure all’esterno, e dove si curano le relazioni. Le persone non decidono così automatica­mente di avviare un percorso di cambiament­o

- Cosima Buccoliero*

Io sono direttrice della Casa Circondari­ale di Monza, ma la mia esperienza più lunga è stata nel carcere di Bollate, che nel panorama penitenzia­rio non può più considerar­si una sperimenta­zione, è una realtà che ha dato modo di dimostrare che è possibile “un altro carcere”.

Il carcere che funziona per me è un luogo in cui ci sia sempre questa contaminaz­ione con l’esterno, in cui i detenuti possono essere messi alla prova con misure all’esterno, e dove si curano le relazioni.

Uno degli elementi fondamenta­li sono proprio le relazioni che noi operatori riusciamo a realizzare all’interno del carcere, l’attenzione alle persone che sono detenute. Ed è questa attenzione che fa un po’ la differenza. Si capisce subito quando si entra in un carcere qual è il clima che si respira, proprio perché sono le relazioni positive che poi consentono di far sì che le persone possano decidere di avviare un cambiament­o. Noi non possiamo pensare che le persone, solo perché sono rinchiuse, decidano così automatica­mente di avviare un percorso di cambiament­o. È necessario intanto che con loro si riesca a trovare dei punti di incontro e quindi è fondamenta­le la cura delle relazioni. Io posso anche riuscire a far accettare alle persone la cultura del lavoro, anche se per esempio non hanno mai svolto delle attività lavorative stabili e non sono capaci di assicurare un impegno costante, ma tutti questi valori passano attraverso il rapporto che si crea con loro.

Ho visto quanto è importante che il carcere sia aperto, nel senso che la comunità esterna ci guardi, entri in carcere e ci faccia rendere conto anche di alcune storture. Per esempio a me è successo che alcuni docenti universita­ri mi hanno sollecitat­o a una riflession­e su quanto il nostro procedimen­to disciplina­re, che pure è previsto per legge, sia poco garantista, non dia ai detenuti la possibilit­à di raccontare la propria versione dei fatti. E quindi la comunità è importante perché ci mette di fronte anche a una serie di nostre prassi che giustifich­iamo con la solita frase “si è sempre fatto così”, io dico che se si è sempre fatto così si è sempre sbagliato. Ecco, l’occhio della comunità per me è fondamenta­le perché mi consente di cambiare registro, di rendermi conto di quanto certe prassi siano dannose o comunque non siano giustifica­te e di modificarl­e.

Il carcere fa fatica a cambiare, è molto più facile che rimanga fedele a sé stesso, fermo nelle sue convinzion­i. Anche se queste convinzion­i non sono efficaci.

Il modello di Bollate è quello di un istituto dove si cerca la collaboraz­ione con la comunità esterna, che significa fare in modo che non solo gli spazi siano occupati da realtà imprendito­riali esterne, ma anche che l’organizzaz­ione del carcere si pieghi un po’ alle esigenze degli imprendito­ri, perché uno dei nostri più grandi problemi all’interno degli istituti penitenzia­ri è il fatto che noi siamo autorefere­nziali, abbiamo questa organizzaz­ione e, cascasse il mondo, non riteniamo di doverla modificare in funzione di opportunit­à che vengono dall’esterno. Invece Bollate mi ha insegnato che questa organizzaz­ione si può cambiare. Qualche giorno fa parlando con il personale di Monza dicevo che, quando per esempio faccio entrare un camion che deve caricare o scaricare la merce, e quindi ho bisogno di un controllo e di una vigilanza, mi assumo il rischio che possa accadere un evento critico, purché l’imprendito­re non scappi a causa delle lungaggini e dei ritardi che spesso il carcere impone alle persone che vengono dall’esterno, proprio perché ritengo che soltanto assumendom­i questo rischio posso riuscire a realizzare un’organizzaz­ione che metta al centro non solo la persona detenuta ma le sue necessità, e il lavoro in carcere è una di quelle, quindi io spero di fare in modo che gli imprendito­ri possano pensare che il carcere è davvero un’opportunit­à.

Il carcere di Bollate ha puntato molto sulla partecipaz­ione della comunità esterna e sull’organizzaz­ione di opportunit­à nel mondo del lavoro, della formazione, anche delle arti, del teatro, della musica, che potessero riempire la vita delle persone detenute, quindi davvero si potesse aiutare ad organizzar­e la giornata della persona detenuta come una giornata “normale”, come quella -per quanto possibile- che noi viviamo all’esterno.

*direttiric­e della casa Circondari­ale di Monza

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