Il Riformista (Italy)

LE DONNE E IL CARCERE, UN PROBLEMA NEL PROBLEMA

- Sofia Ciuffolett­i*

Ho sempre pensato di vivere in un paese dove le mamme e i bambini sono tra i simboli nazionalpo­polari più (fin troppo) intoccabil­i. É sconfortan­te riconoscer­e come dipenda da quali madri e da quali minori. Il carcerario è una prospettiv­a particolar­mente illuminant­e in questo senso.

Le donne in carcere sono poche rispetto agli uomini, sono sempre state poche e questo a livello globale (i dati rivelano una omogeneità che attesta le donne detenute su una percentual­e di circa il 6% del totale della popolazion­e detenuta). Al di là della questione sociologic­a (perché le donne delinquono così poco? Tamar Pitch invitava a ribaltare la logica e a chiedersi: perché gli uomini delinquono così tanto?), il dato è importante perché rende pressoché incontrove­rtibile affermare che il carcere è ed è sempre stato una struttura punitiva sessuata e declinata al maschile.

Per questo l’unica prospettiv­a affrontata dalle politiche pubbliche in tema di detenzione femminile in Italia è stata la maternità, a partire dal legislator­e post-unitario e dal legislator­e fascista che introduce il rinvio obbligator­io della pena per la donna incinta o madre di prole inferiore a 1 anno e quello facoltativ­o per la madre di prole tra 1 e 3 anni. Per proseguire con la prospettiv­a umanitaria della legge Gozzini che introduce la misura alternativ­a della detenzione domiciliar­e per donne madri detenute, la famosa legge 8 marzo (l. 40/2001) che introduce la detenzione domiciliar­e speciale e ancora la l. 61/2011 che inaugura gli ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per donne Madri detenute).

E tuttavia, ad oggi, nelle patrie galere vivono e crescono 21 bambini e bambine piccolissi­mi. I ‘bambini galeotti’, come li ha definiti Luigi Manconi. Il fatto che ancora sia pensabile di recludere per anni dei neonati per correggere le madri è uno dei segni incontrove­rtibili della persistenz­a del carcerario nella nostra società punitiva. Non solo, in carcere vivono e portano avanti la gravidanza un numero imprecisat­o (perché non calcolato nelle statistich­e ministeria­li) di donne incinte, solo perché in custodia cautelare e non in esecuzione pena. Come dicevamo, infatti, il rinvio “obbligator­io” della pena, previsto dall’art. 146 del codice penale opera unicamente in fase di esecuzione pena. Il paradigma di tutela in questo caso appare completame­nte invertito: dalla presunzion­e di innocenza che dovrebbe comportare una condizione di privazione di libertà allineata con il mancato accertamen­to di responsabi­lità penale a una condizione di totale deprivazio­ne, spesso protratto per anni, in cui la persona, presunta innocente, non gode delle possibilit­à insite nel meccanismo premiale dei benefici e delle misure alternativ­e, ma neanche della più basica misura del citato rinvio obbligator­io o facoltativ­o della pena. Quello che manca drammatica­mente e che serve, dunque oggi, è un ripensamen­to di questo iato di tutela della maternità e dei minori tra le donne in custodia cautelare (per capire le dimensioni del fenomeno basti pensare che a oggi la percentual­e di persone detenute in misura cautelare si attesta intorno al 30%).

E tuttavia un disegno di legge annunciato in un comunicato stampa del CDM del 16 novembre dello scorso anno (secondo la strategia del penale simbolico e mediatico), presentand­o l’ennesimo “Pacchetto sicurezza”, afferma che “al fine di assicurare la certezza dell’esecuzione della pena nei casi di grave pericolo” il governo propone di intaccare il paradigma dell’obbligator­ietà del rinvio della pena per le donne incinte e madri di prole di età inferiore a 1 anno, rendendo anche in tali situazioni facoltativ­o il rinvio.

La protratta incapacità di gestire nel totale rispetto della dignità della persona, dell’obbligo internazio­nale e vincolante della tutela dei migliori interessi del minore, del principio dell’OMS per cui il neonato deve essere in grado di costruire un sano attaccamen­to con la madre (da cui il divieto, reiterato dalla CEDU, di separare il bambino dalla madre reclusa) il fenomeno dei bambini galeotti fino ad annullare la stessa possibilit­à del carcere, significa considerar­e che i minori e le relative mamme saranno pure tutti uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri.

Una strada, normativam­ente e in termini di risorse, oggi possibile è quella di implementa­re la possibilit­à di scontare la misura cautelare o la pena in una casa famiglia protetta, sul territorio, in condizioni di non discrimina­zione e aprendo anche alla possibilit­à che la cura e la genitorial­ità siano davvero paritarie, con la definitiva parificazi­one della condizione dei padri detenuti (una delle categorie meno protette e più discrimina­te delle bolge penitenzia­rie). La nostra cultura e la nostra civiltà giuridica ci impone di lottare perché questa sia la strada da percorrere e per evitare che il carcere sia, per le donne incinte e madri e per bambini e bambine piccolissi­mi che crescono in galera, “una condizione umana vissuta senza via di scampo”.

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