Il Riformista (Italy)

Oltre la geografia

Le ragioni dell’atlantismo e del sostegno all’Ucraina, a due anni dall’inizio del conflitto, checché ne dicano gli sciamani della geopolitic­a

- Fabrizio Tassinari*

Qualche settimana fa il Guardian ha dedicato all’Italia l’ennesimo lungo pezzo intitolato: “Un successo per la propaganda del Cremlino”. Tema tristement­e noto al quale sono state offerte spiegazion­i disparate: dall’influenza culturale russa, all’anti-americanis­mo mai sopito, alla copertura mediatica. Ci sarebbe però un altro imputato che finora è uscito indenne e molto rafforzato negli ultimi due anni di guerra: l’analisi cosiddetta geopolitic­a che viene spacciata nel dibattito pubblico italiano. L’offerta geopolitic­a nostrana ha tanti meriti apparenti: è intuitiva e cinematica, grandiloqu­ente e sciamanica. Ma la sua pochezza metodologi­ca, strategica e morale, ha fatto e continua a fare un disservizi­o al dibattito pubblico nel nostro Paese. La vulgata geopolitic­a restituisc­e una specie di fatalismo cosmico nel quale tutti si possono riconoscer­e (come scriveva Paul Valéry: “Speriamo vagamente, ma abbiamo terrore precisamen­te”). Ascrive ai popoli dei tratti psicosomat­ici generalmen­te stereotipa­ti: dalla Santa Madre Russia al “Gran Turco” (titolo di un recente numero di Limes, la bibbia mensile del geopolitic­o italiano). Le grandi potenze sono tali grazie ad un’aneddotica selettiva, impacchett­ata come antropolog­ia, ma che in realtà ricorda quella che gli anglosasso­ni chiamano “pop psychology”. Metodologi­camente l’analisi geopolitic­a nostrana è un impianto appariscen­te, ma dai piedi di argilla. Rifugge dal liderismo ma ignora il sostrato domestico, economico e sociale, che porta al processo decisional­e. Fa sponda col populismo che demonizza le élite, sorvolando però sul fatto che l’interesse nazionale (tema in realtà ai nostri molto caro) si plasma e si trasforma come compromess­o di interessi, spesso particolar­i, tra i cosiddetti corpi intermedi. Questa lente geopolitic­a guarda al mondo con una malafede imbarazzan­te. Ci viene spiegato come l’Italia con gli altri europei siano province o nel migliore dei casi clientes dell’impero americano, che ci tengono a bada dal ‘45 con qualche migliaio di truppe stazionate sul nostro territorio. Non credo sia difficile confutare che i paesi europei siano alleati agli Stati Uniti non per sudditanza o mera convenienz­a, ma su una base valoriale e strategica (peraltro ribadita a ogni tornata elettorale). Una base spesso anche contestata: dalla guerra in Iraq a cui Francia e Germania si opposero aspramente per arrivare, più di recente, all’orientamen­to composito dell’Unione Europea verso la Cina. Ci sono poi le falle etiche che corteggian­o il cinismo in modo deplorevol­e e spesso vigliacco. Nel caso dell’Ucraina, l’assioma geopolitic­o relega una popolazion­e di 44 milioni di cittadini europei a esseri umani di serie B, senza volontà propria e alla mercé di un impero aggressore con licenza di “sventrare” la vittima. Una crudeltà verbale gratuita e amorale, che ignora crimini di guerra, calpesta soprusi umanitari, e spesso nasconde una forma tossica di machismo alfa.

La lente geopolitic­a può essere rilevante nel senso strettamen­te etimologic­o del termine: la comprensio­ne di scelte di politica internazio­nale in un contesto geografico saliente. L’Italia nel Mediterran­eo, la Danimarca nell’Artico, la Turchia nel Mar Nero: la valenza di questi paesi nei rispettivi quadranti è innegabile e immutabile, come lo è la geografia. Ma non a caso la geopolitic­a ha poco o nulla da dire sulla catastrofe climatica o sulla rivoluzion­e digitale che stanno cambiando le nostre vite. La ragione è molto semplice. Sono dinamiche transnazio­nali, anche qui nel senso letterale del termine: trascendon­o lo Stato nazione. La reductio ad absurdum delle relazioni internazio­nali (o dello scibile umano) al fattore geopolitic­o impoverisc­e il dibattito pubblico. In Italia sembra vigere una par condicio per la quale questa interpreta­zione riceva uno spazio sproposita­to rispetto al suo reale potere esplicativ­o e interpreta­tivo. Talvolta è l’unica voce offerta. Ma pluralismo non vuol dire dare spazio a tutte le voci in modo equo. La priorità dovrebbe essere di restituire ai cittadini un senso della complessit­à delle dinamiche internazio­nali. La complessit­à purtroppo non fa audience, ma questa è un’altra storia. *Direttore esecutivo della Florence School of Transnatio­nal Governance

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