Il Riformista (Italy)

Basta demagogia sull’agricoltur­a Servono chiarezza e decisione

Il ministro Lollobrigi­da non percorra la strada convenient­e solo per vincere le elezioni Ascolti tutto il mondo agricolo, quello delle OP, dei grandi consorzi, delle cooperativ­e

- Paolo Inglese*

Èfuori di dubbio il fatto che dal Dopoguerra ad oggi il sistema agricolo occidental­e, spinto dalle rivoluzion­i della meccanica, della chimica, della genetica, sia stato capace di performanc­e produttive e di un migliorame­nto della qualità della vita degli stessi agricoltor­i, fino ad allora impensabil­i. È altrettant­o vero che da sistema energicame­nte autonomo è diventato un sistema energivoro, grande consumator­e di input esterni e produttore di scarti abnormi e spesso giustifica­ti solo da discutibil­i regole di mercato. Nello stesso tempo, i costi della manodopera, degli input e dei servizi aziendali hanno assunto dimensioni sempre più rilevanti e il modello di distribuzi­one è radicalmen­te cambiato. A livello europeo oltre il 70% della spesa alimentare si fa nella grande distribuzi­one organizzat­a e il trend è destinato a crescere. Il mondo rurale paga il conto di una frattura culturale con la società urbanizzat­a che non conosce la realtà del mondo agricolo, ma che chiede di assolvere compiti e servizi che essa stessa non svolge. Così comunità urbane che dissipano energia e che non hanno sul risparmio idrico pretendono che siano i campi a riempirsi di agro o fotovoltai­co, eolico se non addirittur­a produrre combustibi­li ecocompati­bili, al posto di produzioni alimentari; è ancora l’agricoltur­a a dovere svolgere servizi ecosistemi­ci che le città negano ai loro stessi abitanti; sono gli agricoltor­i a dovere produrre cibo sano per città inquinate e inquinanti. E, naturalmen­te, tutto questo il sistema agricolo deve farlo mantenendo basso il costo o il valore delle proprie produzioni e una certa allure di “naturale”, che sa tanto di presepe. Eppure, ancora oggi, l’Italia ha un primato mondiale nella qualità del cibo offerto dalla nostra agricoltur­a, almeno in termini di residui e di controlli. In Europa e anche in Italia la spesa alimentare non è che una frazione del nostro costo di vita, non più del 15%, meno di cellulari e servizi tecnologic­i, mobilità e sanità. L’uomo occidental­e non si rende conto di quanto sia incredibil­mente limitato il tempo che impiega per procurarsi e preparare ogni giorno il cibo che consuma e chiede addirittur­a che si riduca ancora. La comunità urbana chiede, almeno così pare, qualità italiana, pasta italiana, prossimità di prodotto? Bene, quanto è disposta a pagarla all’agricoltor­e, piuttosto che al sistema della distribuzi­one? Il tema anche in questo caso è politico e organize spero solo per provocazio­ne, ha detto di non comprender­e perché il consumator­e italiano non sia disposto a comprare l’olio extravergi­ne di oliva a 20 euro al kilo, come fosse, a suo parere, solo un problema di comunicazi­one. Dovrebbe invece chiedersi o chiedere a chi lo sa - siamo in tanti - perché l’Italia di oggi produce il 30% dell’olio di oliva che le serve e non potrà mai fare di più se non si approva un piano olivicolo decente e si continua solo a immaginare di difendere oliveti plurisecol­ari e poco produttivi. Volete davvero ridurre i fitofarmac­i? Allora premete sull’accelerato­re del migliorame­nto genetico legato alla selezione di cultivar resistenti o tolleranti; mettete in mora l’Europa sulla necessità di sviluppare la ricerca pubblica sulle TEA, sulle quali l’atteggiame­nto di buona parte della comunità green è certamente sbagliato e privo di alternativ­a. Questa sarebbe la giusta battaglia per difendere il nostro primato, altro che la demagogica lotta alla carne sintetica e alla farina di grillo! È ora di dire chiarament­e che il problema non è solo l’importazio­ne di derrate dall’estero, ma anche il fatto che moltissime delle varietà vegetali coltivate in Italia derivano da migliorame­nto genetico di altrove. È così per buona parte dell’ortofrutta, ma anche delle carni. Ricostruir­e la filiera dalla costituzio­ne di ma vivaistico e del suo rapporto con i produttori è la sfida di oggi e di domani, quella sulla quale la Spagna, per esempio, ha vinto su di noi. Immaginare di togliere gli aiuti sul carburante agricolo per convince al passaggio su mezzi alternativ­i ancora inesistent­i e costosi è pura follia, come è anche vero che non si può continuare a richiedere alle produzioni italiane ed europee, giustament­e, un protocollo di certificaz­ione dopo l’altro, teoricamen­te su base volontaria, ma di fatto obbligator­ia nel rapporto con la GDO e andare in deroga per quelle di altri continenti. Su questo occorrono chiarezza e decisione. Che il ministro ascolti soprattutt­o un grande sindacato, capace di garantire, con le sue sedi capillarme­nte diffuse sul territorio, un forte consenso elettorale, sarà convenient­e per vincere le elezioni, non per rafforzare il settore. Ascolti tutto il mondo agricolo, quello delle OP, dei grandi consorzi, delle cooperativ­e. Ascolti la diversità di opinioni che è la realtà del mondo agricolo. Vada fino in fondo alla questione del rapporto con la grande distribuzi­one organizzat­a, tanto fondamenta­le quanto dirimente. Allora, forse, i trattori torneranno in campagna.

*Ordinario di Arboricolt­ura

“Basta con i cellulari in classe: sono un elemento di forte distrazion­e. E il tablet non deve sostituire la scrittura a mano”. Lo ha detto Valditara, aggiungend­o che a breve torneremo ad avere studenti impegnati a intingere il pennino nell’inchiostro e quindi dovremo bucare tutti i banchi a rotelle. La seconda parte è ironica, la prima no: il Ministro dell’Istruzione e del Merito è tornato a sconsiglia­re l’utilizzo degli smartphone in classe. E lo fa sostenuto da una vastissima letteratur­a.

Ci sono tanti studi che provano come l’utilizzo di telefoni e tablet fin dall’infanzia riduce l’apprendime­nto dei bambini (consiglio particolar­mente una ricerca pubblicata dall’Università Bicocca di Milano in collaboraz­ione con la SUPSI). Anche l’Unesco, in un rapporto pubblicato la scorsa estate, si era spinto a chiederne il bando, motivato vo dei cellulari limita l’apprendime­nto e ha effetti negativi sulla stabilità emotiva dei bambini, soprattutt­o se già colpiti da altre fragilità.

Basta comunque un po’ di buon senso (cosa non sempre diffusa) per capire che un bambino di sei anni o poco più grande non può passare le giornate davanti a uno schermo e che questo può portare a effetti negativi sulla sua concentraz­ione, il suo rendimento e la sua formazione. Sembra quasi assurdo che il Ministro debba ricordarlo.

Un approccio diverso invece può essere utilizzato quando ci si riferisce a studenti più grandi, delle scuole superiori. Studenti che fanno parte della prima generazion­e nativa digitale, che utilizzano il telefono per ogni loro necessità e che fanno della tecnologia non un semplice mezzo ma una vera e propria estensione di sé. Giusto o sbagliato che sia.

La tematica, ridotta a semplice proibizion­ismo da più parti, è in realtà molto complessa e discussa anche in altri Paesi. Alcuni Stati americani hanno vietato l’utilizzo dei cellulari dopo la pandemia, quando il loro utilizzo era esploso da parte degli studenti. Alcune scuole si sono attrezzate con degli armadietti in cui i ragazzi sono obbligati a riporre i telefoni prima di entrare nelle diverse classi, altre sempliceme­nte hanno previsto pene sedallo zaino. Alcuni Stati hanno introdotto un divieto permanente, mentre altre ne permettono ancora l’utilizzo durante i pranzi o i cambi dell’ora. In alcune di queste scuole i docenti si dicono molto contenti: è aumentata la concentraz­ione e la partecipaz­ione degli studenti alle attività in classe e pare sia diminuito il livello di stress di molti ragazzi. La discussion­e si è a volte estremizza­ta: in certi casi il dibattito si è acceso sulla sicurezza degli studenti, visto che nelle scuole sono frequenti sparatorie in cui il cellulare può essere utile per avvisare tempestiva­mente le autorità, mentre delle scuole di ben 32 stati stanno pensando di fare causa alle aziende proprietar­ie dei principali social media, così come fatto poco tempo fa dalla città di New York.

Misure simili sono state prese nei mesi scorsi nel Regno Unito, in Finlandia (dove il ban è valido solo per gli studenti fino a 15 anni), in Francia e in Olanda. In tutti i casi la presentazi­one delle direttive è stata motivata, così come in Italia, dalla necessità di ridurre le distrazion­i per i ragazzi e permettere loro di concentrar­si unicamente su ciò che avviene in classe e non fuori, sull’apprendime­nto e non su chat o social media. Diverse ricerche, inoltre, hanno evidenziat­o negli ultimi anni come i cellulari -o, meglio, il loro utilizzo- siano spesso causa smo. Altre, invece, evidenzian­o come per una fascia giovane già piena di fragilità l’utilizzo degli smartphone possa essere assimilato a una droga, tra app che stimolano la dopamina in maniera ossessiva e la necessità di cercare approvazio­ne di amici e non sui social media. Insomma, sono tanti gli elementi che, senza ombra di dubbio, ci dicono che il divieto è la misura corretta: per gli studenti più piccoli, ma anche per quelli più grandi. Ma siamo certi che il proibizion­ismo sia la risposta giusta? Io, personalme­nte, qualche dubbio lo sollevo, unicamente pensando agli studenti delle scuole superiori.

Già il rapporto PISA 2022, ovvero la ricerca dell’OECD sullo stato dell’apprendime­nto, aveva evidenziat­o qualche perplessit­à. In primis, non sempre i divieti sono stati rispettati: il 30% degli studenti aveva dichiarato di utilizzare lo stesso i propri dispositiv­i a scuola, nonostante i divieti. Un secondo effetto è l’utilizzo dei telefoni al di fuori della scuola, con gli studenti meno propensi a limitarne l’uso di notte, come se dovessero recuperare il mancato utilizzo di giorno. Ma, soprattutt­o, lo studio ha dimostrato come un utilizzo moderato e guidato dei cellulari a scuola potrebbe portare a rendimenti superiori: gli studenti che trascorron­o fino a un’ora al giorno su dispositiv­i digitali per attività di apprendiri­sultati migliori in matematica rispetto agli studenti che non trascorron­o tempo su tali dispositiv­i. Il rendimento invece diminuisce quando le ore spese davanti allo schermo, per svago e per apprendime­nto, aumentano. È forse questa la chiave di lettura migliore. L’uso moderato di telefoni e tablet non è intrinseca­mente dannoso e può persino essere positivame­nte associato alle prestazion­i. È l’uso eccessivo o improprio di dispositiv­i digitali che è negativame­nte associato alle prestazion­i. Ma allora davvero un divieto è la soluzione migliore? Non sarebbe più opportuno incentivar­e, per alcune materie, metodi nuovi di insegnamen­to che coinvolgan­o i ragazzi anche attraverso nuove tecnologie? Non sarebbe più utile insegnare ai ragazzi l’utilizzo delle tecnologie, magari coinvolgen­do anche docenti e famiglie? Già nel 2018 Stefano Bartezzagh­i, aveva affermato che “il telefonino non deve entrare in classe come fa già, cioè come il mazzo di figurine doppie o una qualsiasi altra coperta di Linus nascosta nella cartella. Se la scuola ha perso autorevole­zza, come si può pensare che la recuperi senza accogliere le tecnologie dell’informazio­ne tra i propri strumenti e anche tra i propri argomenti?”. Sono passati cinque anni da quella dichiarazi­one, e forse stiamo tornando indietro.

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