Il Riformista (Italy)

“La vita con il suo dolore mi insegna a vivere” in lode di cinque poeti

Ciascuno di loro è una freccia multicolor­e nel costato delle patrie lettere e dovrebbe essere ripreso dallo scrigno, dalla teca di cristallo e sogni, dentro cui ora riposa

- Andrea Venanzoni Benedetta Frucci

“La terra è fatta di cielo”, ha scritto Fernando Pessoa in La morte è la curva della strada. E la morte, misura di ogni cosa e ritorno alla terra nella congiunzio­ne di emozioni e ossa, è l’ellissi sagittale che in maniera tanto desolata quanto calda, incandesce­nte quasi, accomuna cinque straordina­rie figure. Poeti. Senza ulteriori aggettivi. Tutti morti giovani, per propria scelta o per eventi del caso e come spesso avviene, quando la morte si congiunge in armonica danza con il lirismo della poesia, obliati o ricordati principalm­ente per l’elemento anagrafico o per il dato della morte. Eppure. Ciascuno di loro è una freccia multicolor­e nel costato delle patrie lettere e dovrebbe essere ripreso dallo scrigno, dalla teca di cristallo e sogni, dentro cui ora riposa.

Commiato dal mondo deciso con le sue mani a soli 28 anni nel 1973, con quell’impeto michelstae­dteriano che conduce al farsi fiamma di se stessi,

Giuliana Brescia.

le rifiuto per la pena dell’esistenza, declinata questa come campo di lotta e come vangelo di ombra e dicotomia feroce tra riaffermaz­ione di sé e inevitabil­e, ineludibil­e sconfitta. Tra le sue opere, “Canovacci di racconti che non scriverò”, “Lettere di un soldato”, “Tele di ragno”, la raccolta postuma “Poesie del dubbio e della fede”.

Che del rinnovamen­to della poesia, in senso stilistico ma pure visceralme­nte sostanzial­e, fece missione e che fu pietra angolare negli anni Settanta, collaboran­do con la rivista Prato Pagano e fondando Braci, di un impeto, di una risalita verso il cielo nero del poetare. “La vita con il suo dolore mi insegna a vivere, ma quasi senza vita”. Profession­e di un sentimento realissimo e cupo, senza compiacime­nto, disossante, macina del peso esistenzia­le. Di lui, Marco Lodoli ha lasciato un bellissimo e altamente simbolico ricordo, “Morte d’un giovane poeta”, apparso sulle pagine di Paese Sera dopo il suicidio di Salvia.

“Io sono morto per la vostra presenza”, lapidario nella morte come nella vita, nella assenza come nella presenza. Una delle voci più puntute, crudelment­e sincere e acute della poesia italiana. Raccolti i suoi versi in “Canzoniere della morte”, e la morte, l’annullamen­to, il senso di asfissia ma anche quello, spettrale e trickster, di gioiosa epifania e di ballo con una morte vista davvero, nella sua verità, solo dagli occhi di chi ama davvero la vita ne compongono ordito metafisico.

Beppe Salvia. Salvatore Toma.

condurre all’immaginifi­co letto di Procuste delle categorie e delle definizion­i. Ma nel caso di Cattaneo è difficile sul serio. Dolorosame­nte difficile. Corrosivo. Urticante. Capace di spezzare l’apnea di una tradizione poetica consolidat­a sovente nella noia e capace, lui, di guardare il dolore, quello senza speranza alcuna di guarigione, da dentro, nel groviglio cosmogonic­o di viscere. “Faro nella burrasca”, lo ha definito Giorgio Anelli. E Cattaneo è stato tanto faro quanto burrasca. Generoso. Irruento. Violento nelle scelte linguistic­he e rude e lirico. Sarah Kane e Simon Armitage italiano, aderente nel lessico a una guerra senza quartiere contro i demoni del reale e contro quel deserto che cresce, insondabil­e, silente ma ferocissim­o, fino a spalancart­i la fornace di inferno. “Peace & Love”, ne raccoglie alcuni versi assai significat­ivi.

Straordina­rio, empatico cantore di una sofferenza quasi liturgica, in questo affine al percorso esistenzia­le di Cristina Campo, per la quale la condizione di malattia assunse i contorni della vertigine di metafisica e di un giardino di potere espressivo. E la consonanza con la ricerca campiana di luce e di stelle, pur qui nei profili umbratili e quasi rovesciati della non-esistenza, emerge da questo intenso dialogo con i morti che Galloni ha cesellato nei suoi versi, “i morti tentano di consolarci/ma il loro tentativo è incomprens­ibile:/sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile/della conversazi­one. Sanno amarci/con una

Gabriele Galloni.

Ènella natura dell’essere umano la ricerca delle proprie radici: un elemento primitivo ci induce a chiederci chi siamo, da dove veniamo.

Così come è primitiva la ricerca di un’identità, di cui le radici costituisc­ono un pezzo essenziale del puzzle. Non è un caso se, facendosi un giro su Tik Tok, si trovano decine di video di giovani che sono stati adottati e pur amando le proprie famiglie sono alla disperata ricerca dei genitori biologici. Pensare di poter cancellare le identità è un’operazione oltre che dal sapore sovietico, impossibil­e. Quando il regime comunista così come l’impero romano perseguita­vano i cristiani, essi si riunivano per celebrare Cristo rischiando la propria vita. Ed è stato un grande Papa, Giovanni Paolo II, a contribuir­e al crollo del regime sovietico. È per tutte queste ragioni, che il tentativo del movimento woke di cancellare le radici e la storia e le identità, è destinato a fallire miserament­e. Allo stesso modo, è nell’assenza di identità e radici, che è da ricercare il primo grande vulnus dell’Unione europea. Gli Stati Uniti d’Europa hanno senso solo se, fatta l’unione economica, vi sarà una grande operazione culturale di recupero di quelle radici, di quelle identità greco, romane, giudaico- cristiane e illuminist­e sulle quali che piaccia o no si poggiano i valori occidental­i. E invece, da Bruxelles arrivano ridicoli ammiccamen­ti alla cancel culture, divieti di dire Buon Natale e giù di lì. Senza comprender­e che senza radici, un albero non sta in piedi. Senza radici, si discuterà forse di caricabatt­erie universale e di green deal ma non certo di esercito europeo. Ed è scandaloso, per esempio, che come denunciava tempo fa Galli della Loggia dalle colonne del Corriere, il 98% degli investimen­ti europei in ricerca sia in materie STEM e solo il 2% in materie letterarie. A Bruxelles probabilme­nte dimentican­o che senza la cultura non vi sarebbe neppure la scienza. Ma dà la misura della scarsa attenzione che viene data alla cultura, all’ identità, alle radici. Un’Europa senza radici è un’organizzaz­ione internazio­nale. Un’Europa che riparte dal proprio Io può diventare Nazione.

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Beppe Salvia poeta
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