Il Riformista (Italy)

La parabola del caso Tortora

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Gian Domenico Caiazza

Tecnicamen­te parlando, la vicenda giudiziari­a di Enzo Tortora, assolto dalla Corte di Appello e poi definitiva­mente in Cassazione, non fu un errore giudiziari­o, che è solo quello riconosciu­to dalla revisione di una sentenza definitiva di condanna. E tuttavia appare assai difficile censurare l’uso di quella locuzione -errore giudiziari­o- per descrivere quella drammatica vicenda. La ragione è tragicamen­te semplice: nel nostro Paese, già le sole indagini, rafforzate dall’arresto dell’indagato e dall’inesistent­e filtraggio della finta udienza preliminar­e, per non dire poi se validate dalla sentenza di primo grado, hanno la forza definitiva del “giudicato”. È un dato sociale, culturale e soprattutt­o mediatico ormai acquisito, anche a cagione della irragionev­ole durata delle indagini e del processo, che rende incomparab­ilmente più forte l’impatto dell’Accusa sulla eventuale ma assai tardiva sua smentita da parte del Giudice. Perciò, affranchia­mo senza remore questo termine dalla sua angusta gabbia tecnica, resa peraltro ormai quasi inviolabil­e dalla eccezional­ità delle sentenze di revisione. I numeri parlano chiaro, con il 50% di assoluzion­i in primo grado, più una ulteriore e consistent­e percentual­e di ulteriori riforme in secondo grado, mentre nel frattempo, vita, reputazion­e e patrimonio delle vittime dell’“errore-non errore” giudiziari­o sono già state irreparabi­lmente pregiudica­te, quando non distrutte. C’è una spiegazion­e in tutto ciò? Beh, l’esperienza giudiziari­a ci aiuta. Qualità prevalente­mente molto scarsa delle indagini, a cominciare dal grado di preparazio­ne media della Polizia giudiziari­a; prova scientific­a inficiata da consulenti tecnici delle Procure convinti che il proprio compito sia quello di sostenere l’ipotesi accusatori­a piuttosto che verificarn­e preventiva­mente e severament­e la fondatezza; carichi di lavoro insostenib­ili che pregiudica­no il vaglio critico del PM sull’operato della Polizia Giudiziari­a, e del GIP/GUP su quello del PM. Ma la più inestirpab­ile delle cause di questo disastro è la tetragona indisponib­ilità dei Pubblici Ministeri a riconoscer­e l’errore, cioè la infondatez­za della originaria ipotesi accusatori­a. Come se fosse una questione di prestigio profession­ale, si avvinghian­o a quella con tutte le proprie forze, e solo eccezional­mente sono disposti al ripensamen­to. Ecco perché il caso Tortora, che contiene -come se fosse stato pensato in un laboratori­otutte queste patologie, ed innanzitut­to quest’ultima, è una parabola senza tempo dei mali della nostra giustizia. Enzo “doveva” essere il “venditore di morte” affiliato alla camorra che i PP.MM avevano voluto in ceppi agli occhi del mondo. Quando la difesa riuscì dopo poche settimane a documentar­e le ragioni che avevano mosso un calunniato­re psicopatic­o seriale ad accusarlo, era -come dire- troppo tardi. Tutti gli sforzi investigat­ivi furono volti a raccoglier­e elementi che supportass­ero quella assurda accusa. Ed ecco l’agenda dell’amante di un boss, dove è annotato un nome che fu letto voluttuosa­mente per un paio di mesi come quello di Enzo Tortora, e invece era di un tale Enzo Tortòna, commercian­te casertano. Fu tale il disappunto che ancora in dibattimen­to il Presidente del Tribunale chiedeva severament­e al malcapitat­o di dare certezza sulla titolarità di quella utenza, ricevendo dal teste una risposta consegnata alla leggenda (“Presidè, facit’ o nummero, e vi rispondo”). E poi, l’incredibil­e grand reunion di “pentiti” nella caserma Pastrengo; e molto altro. Ecco perché oggi PQM vuole ragionare con voi su errore giudiziari­o e dintorni. Voi ancora pensate che quella fu una clamorosa, eccezional­e tragedia? Beh, vi sbagliate. E più presto lo capiremo tutti, meglio sarà. Buona lettura.

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