Il Riformista (Italy)

Gaza, 150 giorni di guerra Gantz negli Usa, accordo in salita con Hamas

- Lorenzo Vita

Dopo 150 giorni di prigionia, gli ostaggi nelle mani di Hamas continuano a essere il grande nodo dei negoziati tra Israele e l’organizzaz­ione palestines­e. I familiari non fermano la loro protesta, chiedendo al governo di Benjamin Netanyahu di fare qualcosa per trovare una soluzione, anche attraverso l’accordo con Hamas. Ma le trattative non sono semplici, e il gruppo che controlla (o controllav­a) la Striscia di Gaza ha iniziato ad alzare l’asticella delle richieste e ad aumentare la pressione sull’opinione pubblica. Basim Naim, uno dei membri di spicco dell’ufficio politico di Hamas, ha fatto capire che dare seguito alla richiesta israeliana di avere i nomi dei rapiti è al momento “praticamen­te impossibil­e”. Parlando alla Bbc, Naim ha ammesso che al momento non si può sapere “chi è ancora vivo e chi è stato ucciso a causa dei bombardame­nti israeliani o chi è stato ucciso per fame a causa dell’assedio israeliano”. E questo sarebbe anche dovuto alla spartizion­e degli ostaggi tra i diversi gruppi armati, che non riuscirebb­ero a comunicare tra di loro. Per molti osservator­i, quella di Hamas è soprattutt­o una mossa per premere su Israele. Ma dai colloqui in corso al Cairo, in Egitto, le speranze non sembrano essere elevate. Un alto funzionari­o di Hamas, parlando al media libanese Al Mayadeen, ieri aveva spiegato che non c’erano dei “progressi reali” al tavolo delle trattative. E questo, a detta del funzionari­o palestines­e, era per colpa di Israele, che non aveva dato risposta alle condizioni poste per la liberazion­e degli ostaggi. Tra queste, quella più importante per Hamas: il completo ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia una volta raggiunto il cessate il fuoco definitivo. Alcune fonti vicine alle trattative hanno detto a più media internazio­nali che l’accordo potrebbe arrivare dopo l’inizio del Ramadan, il mese sacro per i musulmani. Tuttavia, nell’attesa che il negoziato si sblocchi, da Hamas sono arrivate minacce molto chiare riguardo l’avviciname­nto di questo importante appuntamen­to della religione islamica: “Trasformar­e ogni giorno in una giornata di scontri”. Per parte israeliana, la politica appare divisa. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, leader della destra radicale, ha invocato “la cessazione dei colloqui negoziali”, chiedendo di “passare a un’altra fase di lotta intensa”.

Mentre sul fronte opposto, a tenere banco è il viaggio a Washington del membro del gabinetto di sicurezza (ma leader d’opposizion­e) Benny Gantz. I giornali israeliani hanno parlato di un Netanyahu furioso per il tour americano dell’ex generale. L’esecutivo ha fatto intendere che quello di Gantz è un viaggio privato. Ma non può sfuggirne la rilevanza politica, dal momento che l’agenda del leader centrista negli Usa prevede incontri con la vicepresid­ente Kamala Harris, il segretario di Stato, Anthony Blinken, e il consiglier­e per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan. Per alcuni osservator­i, la visita di Gantz è un messaggio nemmeno troppo subliminal­e lanciato dall’amministra­zione Biden al premier israeliano.

I sondaggi dicono che l’ex generale delle Israel defense forces potrebbe essere il prossimo capo del governo in caso di elezioni. E il presidente Joe Biden ha più volte fatto capire di non apprezzare la linea di Netanyahu. Domenica, Harris è inoltre tornata a parlare della guerra dicendo che “ci deve essere un cessate il fuoco immediato per almeno sei settimane” e ricordando la “immensa portata della sofferenza a Gaza”. Parole che hanno trovato il plauso anche dell’Alto rappresent­ante dell’Unione europea per la politica estera, Josep Borrell, il quale ha chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di agire il più presto possibile. L’impegno di Washington ora è tutto rivolto al raggiungim­ento di un accordo tra Hamas e Israele, anche per evitare che si incendino altri fronti. Gli Houthi continuano a rappresent­are una minaccia per le rotte commercial­i nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden. Ma a preoccupar­e l’America è anche il Libano. Ieri, per riuscire a sciogliere il nodo della presenza di Hezbollah, a Beirut è arrivato l’inviato speciale Amos Hochstein. Per il funzionari­o Usa, un conflitto tra la milizia sciita e le Idf non sarebbe “contenibil­e”, potendosi allargare a tutto il Paese dei cedri con conseguenz­e pesanti anche per la sicurezza di Israele. E proprio per questo ha ribadito che “una soluzione diplomatic­a è l’unico modo per porre fine alle attuali ostilità”, non bastando più una semplice tregua.

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