Elezioni in Iran vince il boicottaggio
Voto show, i conservatori hanno ottenuto la maggioranza dei seggi, molti elettori contattati telefonicamente da funzionari del governo e costretti a fornire i loro dati per essere registrati come votanti
Lo show delle elezioni farsa in Iran si è concluso con la pubblicazione artefatta dei dati sull’affluenza alle urne. Gli estremisti pro Khamenei ora occupano tutti i 290 seggi di cui è costituito il Majles, il parlamento iraniano che in realtà tale non è perché è di fatto l’ufficio politico dei pasdaran e degli ayatollah, e in tutti gli 88 seggi dell’Assemblea degli esperti, organo religioso questo, deputato alla nomina della guida suprema, carica attualmente ricoperta dall’ottantacinquenne Ali Khamenei. Il Consiglio dei guardiani aveva accuratamente e preventivamente escluso tutti i candidati sgraditi e alcune province erano rimaste private dei rappresentanti delle minoranze locali.
In queste elezioni vi è stato un solo vincitore: il boicottaggio. Secondo affidabili fonti di monitoraggio locali solo circa il 20% della popolazione si è recato alle urne. Ciò è stato confermato anche da autorità provinciali, nonostante i pasdaran si siano impegnati a fabbricare prove secondo le quali alle urne si sarebbe recato il 40% degli elettori. Ma anche questo dato diffuso dalle agenzie delle guardie rivoluzionarie segna un nuovo record storico negativo e se consideriamo che il 40% delle schede scrutinate sono bianche o nulle, la percentuale di coloro che hanno espresso un voto valido rispetto ai 61 milioni degli aventi diritto, non supera il 24%, ovvero 14 milioni di elettori. Il boicottaggio dunque ha trionfato facendo registrare un successo plebiscitario. Narges Mohammadi, attivista iraniana per i diritti umani e premio Nobel per la pace, dal carcere di Evin in cui è ancora rinchiusa, aveva definito il boicottaggio come un “dovere morale” per i cittadini che vogliono il cambio di regime. Mentre la guida spirituale Ali Khamenei aveva equiparato il rifiuto del voto al rifiuto dell’Islam e al tradimento della nazione. Non vi è dubbio che questa storica massiccia astensione è l’ennesima conferma che la popolazione iraniana “rifiuta “la Repubblica islamica” e che non intende legittimarla come invece fa la comunità internazionale. L’Iran sembra essere l’unico paese al mondo a godere di legittimazione solo dall’esterno e anche questa non è una novità, come si apprende dalla storia dei 45 anni del regime dispotico degli ayatollah. Gli iraniani non credono più che il regime possa essere riformato, vogliono voltare pagina e liberarsi della Repubblica islamica, soprattutto dopo la terribile repressione, senza precedenti, scatenata dopo le proteste a livello nazionale seguite alla morte di Mahsa Amini nel settembre 2022.
Molti elettori hanno dichiarato di essere stati contattati telefonicamente da funzionari del governo e costretti a fornire i loro dati per essere registrati come votanti. Nei vari seggi centinaia di schede sarebbero state inserite nelle urne preventivamente già contrassegnate con un voto. Durante il giorno del voto, la televisione statale e le agenzie di stampa avevano diffuso immagini e filmati da diversi seggi elettorali che mostravano lunghe code di elettori entusiasti che rispondevano agli appelli al voto della guida suprema. Gli attivisti online hanno smascherato il trucco messo in scena dal regime: quelle immagini erano frutto di un montaggio di video di cittadini in coda alle panetterie e agli sportelli bancari. Era l’ennesima messa in scena orchestrata dalle autorità come era avvenuto nelle 12 tornate elettorali farsa precedenti.
La crescente apatia del popolo iraniano nei confronti del voto orchestrato dalla Repubblica islamica è radicata nel profondo. Ma questa volta la diserzione dalle urne ha fatto registrare un nuovo record storico: il regime, infatti, non è mai stato così odiato come lo è ora dalla popolazione iraniana in maniera trasversale, oppositori e non, dal centro alla periferia del paese. Già alle ultime elezioni presidenziali del 2021, solo poco più del 30% degli elettori espresse un voto valido. I soldati nelle caserme e i detenuti nelle carceri del paese, minacciati da pesanti sanzioni, sono stati costretti a votare. Minacciati di licenziamento i dipendenti pubblici se non si fossero recati alle urne e gli studenti che sono in attesa di accedere alle università o in attesa di laurea, così come i commercianti che hanno rischiato la chiusura delle loro botteghe. Ricordiamo che non sono stati ammessi osservatori esterni. Gli unici osservatori di queste elezioni sono stati i guardiani della rivoluzione che davanti ad una astensione così massiccia hanno poi palesemente gonfiati i dati sull’affluenza per dimostrare che il movimento di Mahsa Amini avrebbe poco peso nella società e che il regime avrebbe ancora un forte sostegno.
I cosiddetti riformisti iraniani considerano significativa l’astensione elettorale dell’ex presidente Mohammad Khatami presentato come “un vincitore” di queste elezioni per non essersi recato al voto. È bene precisare che i partiti di opposizione in Iran sono banditi e quei gruppi politici, cosiddetti riformisti, come Etehad-e Mellat (Unità della nazione), tutti interni al sistema della Repubblica islamica, pur avendo anch’essi subito una massiccia epurazione non hanno boicottato apertamente le elezioni, ma si sono limitati a non sostenere gli altri candidati.
Tra i membri dell’assemblea degli esperti le cui candidature sono state respinte figurano anche l’ex presidente Hassan Rouhani e due ex ministri dell’Intelligence, Mahmoud Alavi e Heydar Moslehi.
L’astensione dunque non ha riguardato soltanto le organizzazioni politiche contrarie alla Repubblica islamica, ma le stesse fazioni che costituiscono l’impalcatura di potere contraria a Khamenei, come l’Assemblea degli insegnanti e degli studiosi del seminario sciita di Qom, un’associazione che riunisce parte del clero pro riforma.
È l’ennesimo messaggio che l’establishment al potere lancia risolutamente a sostegno del suo programma di “epurazione” per garantirsi che nessun critico si faccia strada nei circoli del potere e per blindare la struttura di regime attorno al leader supremo.