Arte Queer. Corpi, segni, storie oltre gli stereotipi di genere
Dobbiamo seguire Roncati nell’arte della dis-locazione rispetto a quei centri di comprensione del reale da cui, spesso inconsciamente, si dipartono i nostri sguardi più stereotipati
Con il volume Arte Queer. Corpi, segni, storie, Elisabetta Roncati attua uno dei suoi interessi primari da qualche anno a questa parte: avvicinare le persone all’arte in maniera chiara, facilmente comprensibile e professionale. In questo caso, lo fa in riferimento alle espressioni artistiche contemporanee che hanno dedicato le loro energie a sondare le identità queer. Come molto opportunamente Roncati pone in luce sin dalle prime pagine del libro, ad essere raccontate qui sono artisti che hanno fatto del queer un cardine della loro poetica, a prescindere dalla loro identità e dunque ben al di là di appartenenze a o militanze dentro la comunità LGBTQIA+. Aderente a uno spirito divulgativo rigoroso e non banalizzante, Roncati costruisce una parte introduttiva utilissima a chi voglia orientarsi nella terminologia, spesso non univoca e comunque in continua evoluzione, che riguarda le questioni di orientamento sessuale e di genere: ad essa si aggancia un quadro di sintesi efficace delle principali tappe dell’arte queer nella storia, con particolare riguardo a figure eminenti del XX secolo. Si pensi a Gluck che ‘nell’arco di tutta la sua esistenza si rifiutò categoricamente che ci si rivolgesse nei suoi riguardi con appellativi o desinenze grammaticali sia femminili che maschili’: ‘ogni suo dipinto aveva una cornice particolare che lei stessa costruiva, dando ai quadri una sorta di tridimensionalità architettonica’. Roncati inserisce in pagina l’opera-simbolo di Gluck, quel Medallion (1936) in cui ritraeva sé e Nesta Obermer e che divenne un’icona rappresentativa della comunità queer. Né, in questa carrellata velocissima sulle orme delineate da Roncati, si può qui omettere almeno un riferimento a Florence Henri che ‘giocò con le caratteristiche corporee per raggiungere un’identità fluida’, e a Claude Cahun, della cui autobiografia si cita un eloquente passaggio: ‘Maschile? Femminile? Dipende dai casi. Il neutro è il solo genere che mi si addice sempre’.
Ma il vero cuore del percorso d’indagine e visione proposto da Roncati sta nella ricchissima, e generosa, messe di opere d’arte, ed artista, che il volume offre al lettore: si tratta di cinquanta ‘stazioni’ di un personalissimo, ma documentato e ragionato, allestimento curato da Roncati per introdurci effettivamente dentro l’arte queer, col suo universo di esperienze destinate altrimenti a restare nell’ombra, riportando al centro del discorso artistico le donne in un viaggio che va dal Togo all’Afghanistan, dalla Russia alla Corea. Attingo a questa vigorosa mostra collettiva col mio gusto personale per sollecitare l’attenzione su due artista. Amanda Ba, col suo lavoro sopra corpi immensi e fortissimi di Gigantesse (nel libro è riprodotto American Western, 2022), incarnazione di quei concetti di ‘mostruosità, trasgressione e modificazione corporea spesso collegati dal grande pubblico alla comunità LGBTQIA+’. E Cassils, artista transgender classe ’96 che, nel suo lavoro performativo attorno, ad esempio, il mitico veggente cieco dell’antica Grecia, Tiresia (che fu sia uomo che donna), fa del lavoro attorno al suo corpo uno specchio d’osservazione sopra le dinamiche di ‘mercificazione e sull’estetizzazione degli esseri viventi’. In queste storie di corpi che si fanno segni, restiamo infine con un senso di fecondo ri-centramento: a patto che seguiamo Roncati nell’arte, tutta queer, della dis-locazione rispetto a quei ‘centri’ di comprensione del reale da cui, spesso inconsciamente, si dipartono i nostri sguardi più stereotipati.