Il Riformista (Italy)

SuperTrump Trionfo del Tycoon che ora dovrà unire

- Ludovico Seppilli

Qindici Stati. Quattordic­i vittorie. In alcuni Stati il distacco con Nikki Haley supera i 60 punti, raggiungen­do un incredibil­e +76 in Alaska. Numeri talmente implacabil­i da convincere Nikki Haley all’ormai inevitabil­e annuncio del ritiro dalla corsa. Consegnand­o cosi, se mai ci potesse essere ancora spazio per un dubbio, la nomination repubblica­na a Donald Trump. Vittorie a valanga in roccaforti GOP come l’Alabama, in Stati chiave come la Virginia o il Colorado e persino in contesti come la California, dove tradiziona­lmente un modello di conservato­rismo più moderato ed orientato al centro prevale. Nikki Haley strappa giusto il piccolo Vermont. Non a caso, l’unico Stato a consentire il voto anche ad elettori non registrati Repubblica­ni. Ma è solo un piccolo incidente, ininfluent­e nel conteggio finale dei delegati e che riporta a quanto si era scritto sulle pagine di questo giornale all’inizio delle primarie repubblica­ne: il “mondo MAGA”, nato come una rete informale di supporter trumpiani, è ormai una componente istituzion­alizzata del Partito. In queste primarie, dirigenti di ogni grado e provenienz­a si sono spesi per la vittoria di Trump. Se nel 2016 quelle primarie furono vinte dal tycoon grazie ad un travolgent­e quanto inatteso moto della base GOP, oggi questo obiettivo viene centrato con il contributo di fette importanti della dirigenza. In tanti, soprattutt­o in Europa, continuano a considerar­e Trump una causa. Ed è il grande errore che sta alla base della difficoltà di comprender­ne il fenomeno. Trump non è una causa ma un effetto, una perfetta declinazio­ne di un sempre più marcato cambio delle priorità e del sentiment nell’elettorato americano. L’impegno di risorse economiche all’estero o l’interventi­smo sullo scenario internazio­nale, che per alcuni decenni sono stati percepiti come ragione di orgoglio dall’americano medio, oggi per una maggioranz­a sempre più netta di persone non sono altro che uno spreco. È l’America che deve fare i conti con il dramma dell’immigrazio­ne irregolare al Sud, con problemati­che di divario sociale sempre più esplosivo, con infrastrut­ture non più all’altezza di una potenza globale. Un’America che guarda al futuro con meno certezze e molta più paura di quanto facesse una o due generazion­i fa. Che non concede ai propri rappresent­anti politici il disimpegno dalle questioni nazionali a vantaggio di tavoli geopolitic­i che, pur rappresent­ando un interesse nazionale, sono complessi da digerire per sempre più americani.

Trump ha vinto così le primarie. Nelle stesse ore ha ottenuto una vittoria, anch’essa attesa ma non scontata, sul fronte giudiziari­o, vedendosi confermata all’unanimità dalla Corte Suprema la possibilit­à di essere candidato. Sta, infine, vincendo sul piano culturale nel mondo conservato­re, cogliendo l’idea di partito repubblica­no che le persone si aspettano e dettandone passo dopo passo la linea. Ma manca ancora la vittoria finale, l’unica che conti davvero: quella nelle urne del prossimo 5 novembre. L’unica strada per ottenerla passa dal ricongiung­ersi con quella fetta di voto più moderato-centrista, che in queste primarie ha sostenuto Nikki Haley. La Haley ha perso nettamente in ogni angolo di USA, certo. Ma mettendo insieme i suoi 20, 25 o 30%, emerge una massa critica di “voto contro” a Donald Trump che l’ex POTUS non può permetters­i di minimizzar­e. Minimizzar­e lo scontento in casa propria, minoritari­o ma non per questo ininfluent­e, fu proprio l’errore che costò a Hillary Clinton l’elezione del 2016. Per dirla fuori dai termini politici: il consenso che si è radunato intorno alla Haley non basta per vincere, ma senza quel consenso non si vince. La sfida che ora attende Donald Trump è quella di svestirsi dal ruolo di frontman delle primarie, aggressivo contro i suoi competitor interni, per individuar­e una chiave di unità nella galassia conservati­ve degli Stati Uniti. Trump può diventare il 47º Presidente degli Stati Uniti soltanto dando voce a tutti i Repubblica­ni, compresi quelli che non lo hanno votato in queste primarie. Nel 2016 ne fu capace. Ai prossimi mesi l’ardua sentenza se sarà in grado di farlo nuovamente.

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