Annalisa vittima di manspreading? Vi offendete per tutto
La cantante Annalisa è finita al centro di una pubblica indignazione divampata sull’onda incandescente di un video che la ritrae ‘schiacciata’, così hanno titolato alcuni organi di informazione, da due uomini seduti accanto a lei in prima fila ad una sfilata di moda. Apriti cielo. Non potendo limitarsi a rubricare il tutto come mera cafoneria o, logisticamente parlando, come scarsa accortezza di chi ha organizzato la platea visto che le sedute erano tutte troppo vicine tra loro e i due uomini accanto alla cantante di stazza considerevole, si è scivolati subito a piagnucolare di ‘manspreading’. Traducendo a beneficio delle persone normali che ignorano il significato di questo abietto anglismo, si tratterebbe della pratica, maschilmente tossica, di spalancare le gambe e mettere in soggezione la donna seduta davanti o di lato. Nel caso concreto, peraltro nessuno dei due uomini stava facendo tecnicamente una roba del genere. Uno dei due aveva indosso una monumentale pelliccia, voluminosa e ingombrante. Avrebbe potuto toglierla, ma essendo lui di colore la stampa preferisce fermarsi alla indignazione generalizzata senza scendere nel dettaglio delle singole mancanze di galateo, o su chi tra i due possa essere definito più manspreader, perché altrimenti si rischierebbe la caduta nella gerarchia delle minoranze.
E d’altronde, in questo nostro gramo tempo, non importa accertare un qualche fatto, anche perché di fatti qui non se ne vedono. Ciò che conta è solo farsi sentire indignati, offesi, spandere irritazione e risentimento, lacrime. Viviamo sotto il segno zodiacale dell’offesa, in una epoca in cui chiunque per qualunque cosa rivendica il proprio santo diritto di dirsi indignato e di chiedere punizioni per trasgressori e peccatori. Si è offesi per tutto. Letteralmente. Più un evento, un accadimento, un elemento, una parola, è insignificante, risibile, più l’offesa si renderà fiammeggiante e acuminata. Pochi giorni fa, Giuseppe Cruciani, popolare conduttore radiofonico de La Zanzara, è finito al centro di un fuoco di fila di indignati in servizio effettivo permanente perché ha apostrofato un suo ospite, influencer assai corpulento che sulla propria corpulenza gioca molto, ‘ciccione del cazzo’. Anche qui: tutti a urlare al fat-shaming, perché ormai senso dell’ironia, del sarcasmo e del ridicolo mancano, ma non mancano mai anglismi categorizzanti per definire qualunque sciocchezza, utili da impugnare per macinare le ossa di chi ci sta antipatico. Di recente, un noto canale televisivo ha trasmesso dei film di Lino Banfi e di Thomas Milian. Pullulano, letteralmente, di battute su ‘ricchioni’, ‘checche’ o, proprio, ‘froci’. Mi stupisce non siano finiti ancora sotto il maglio dell’Inquisizione woke, anche se qualche avvisaglia già si registra. I tempi cambiano, il linguaggio si evolve, bla bla bla, ma poi alla fine della fiera chi sostiene la edulcorazione del linguaggio finisce sempre per incartarsi nei ghetti semantici degli asterischi o della schwa, per non offendere nessuno. Ed è impossibile, perché offendersi ormai è considerato diritto fondamentale, inalienabile. D’altronde quando il mondo stesso della cultura finisce con il cedere, con il piegarsi, il passo successivo non può che essere nefasto. William S. Burroughs si è visto anni fa tradurre un suo celebre e controverso romanzo, ‘Queer’, con il titolo di ‘Checca’, appropriato, perché nella sua intima crudezza quello doveva essere il titolo. Successivamente, quel titolo è stato trasformato in ‘Diverso’ e poi si è evitato proprio di tradurlo. ‘Queer’ era stato suggerito allo scrittore da Kerouac; non indicava un riferimento alla omosessualità politica visto che il romanzo si dipana in un fetido sottobosco di sessualità promiscua. Il titolo svolgeva silente automortificazione, un insulto autoinflitto per via dell’evento scatenante del romanzo, l’omicidio della moglie di Burroughs ad opera dello scrittore stesso che le sparò sotto effetto di droghe. Il paradosso, tragico ma indubbio, è che ormai a prevalere è una sorta di mortifera polizia politica del linguaggio, preoccupata più dall’uso di certi termini che non dall’utilizzo di vera, effettiva violenza.
Il problema è che, se tutto diventa violenza, nulla poi è più, sul serio, violenza.