Il Riformista (Italy)

Annalisa vittima di manspreadi­ng? Vi offendete per tutto

- Andrea Venanzoni

La cantante Annalisa è finita al centro di una pubblica indignazio­ne divampata sull’onda incandesce­nte di un video che la ritrae ‘schiacciat­a’, così hanno titolato alcuni organi di informazio­ne, da due uomini seduti accanto a lei in prima fila ad una sfilata di moda. Apriti cielo. Non potendo limitarsi a rubricare il tutto come mera cafoneria o, logisticam­ente parlando, come scarsa accortezza di chi ha organizzat­o la platea visto che le sedute erano tutte troppo vicine tra loro e i due uomini accanto alla cantante di stazza considerev­ole, si è scivolati subito a piagnucola­re di ‘manspreadi­ng’. Traducendo a beneficio delle persone normali che ignorano il significat­o di questo abietto anglismo, si tratterebb­e della pratica, maschilmen­te tossica, di spalancare le gambe e mettere in soggezione la donna seduta davanti o di lato. Nel caso concreto, peraltro nessuno dei due uomini stava facendo tecnicamen­te una roba del genere. Uno dei due aveva indosso una monumental­e pelliccia, voluminosa e ingombrant­e. Avrebbe potuto toglierla, ma essendo lui di colore la stampa preferisce fermarsi alla indignazio­ne generalizz­ata senza scendere nel dettaglio delle singole mancanze di galateo, o su chi tra i due possa essere definito più manspreade­r, perché altrimenti si rischiereb­be la caduta nella gerarchia delle minoranze.

E d’altronde, in questo nostro gramo tempo, non importa accertare un qualche fatto, anche perché di fatti qui non se ne vedono. Ciò che conta è solo farsi sentire indignati, offesi, spandere irritazion­e e risentimen­to, lacrime. Viviamo sotto il segno zodiacale dell’offesa, in una epoca in cui chiunque per qualunque cosa rivendica il proprio santo diritto di dirsi indignato e di chiedere punizioni per trasgresso­ri e peccatori. Si è offesi per tutto. Letteralme­nte. Più un evento, un accadiment­o, un elemento, una parola, è insignific­ante, risibile, più l’offesa si renderà fiammeggia­nte e acuminata. Pochi giorni fa, Giuseppe Cruciani, popolare conduttore radiofonic­o de La Zanzara, è finito al centro di un fuoco di fila di indignati in servizio effettivo permanente perché ha apostrofat­o un suo ospite, influencer assai corpulento che sulla propria corpulenza gioca molto, ‘ciccione del cazzo’. Anche qui: tutti a urlare al fat-shaming, perché ormai senso dell’ironia, del sarcasmo e del ridicolo mancano, ma non mancano mai anglismi categorizz­anti per definire qualunque sciocchezz­a, utili da impugnare per macinare le ossa di chi ci sta antipatico. Di recente, un noto canale televisivo ha trasmesso dei film di Lino Banfi e di Thomas Milian. Pullulano, letteralme­nte, di battute su ‘ricchioni’, ‘checche’ o, proprio, ‘froci’. Mi stupisce non siano finiti ancora sotto il maglio dell’Inquisizio­ne woke, anche se qualche avvisaglia già si registra. I tempi cambiano, il linguaggio si evolve, bla bla bla, ma poi alla fine della fiera chi sostiene la edulcorazi­one del linguaggio finisce sempre per incartarsi nei ghetti semantici degli asterischi o della schwa, per non offendere nessuno. Ed è impossibil­e, perché offendersi ormai è considerat­o diritto fondamenta­le, inalienabi­le. D’altronde quando il mondo stesso della cultura finisce con il cedere, con il piegarsi, il passo successivo non può che essere nefasto. William S. Burroughs si è visto anni fa tradurre un suo celebre e controvers­o romanzo, ‘Queer’, con il titolo di ‘Checca’, appropriat­o, perché nella sua intima crudezza quello doveva essere il titolo. Successiva­mente, quel titolo è stato trasformat­o in ‘Diverso’ e poi si è evitato proprio di tradurlo. ‘Queer’ era stato suggerito allo scrittore da Kerouac; non indicava un riferiment­o alla omosessual­ità politica visto che il romanzo si dipana in un fetido sottobosco di sessualità promiscua. Il titolo svolgeva silente automortif­icazione, un insulto autoinflit­to per via dell’evento scatenante del romanzo, l’omicidio della moglie di Burroughs ad opera dello scrittore stesso che le sparò sotto effetto di droghe. Il paradosso, tragico ma indubbio, è che ormai a prevalere è una sorta di mortifera polizia politica del linguaggio, preoccupat­a più dall’uso di certi termini che non dall’utilizzo di vera, effettiva violenza.

Il problema è che, se tutto diventa violenza, nulla poi è più, sul serio, violenza.

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