Il Riformista (Italy)

IL FANTASMA DEL GRANDE VECCHIO

Bisogna interrogar­si in maniera seria su che cosa è diventata l’Antimafia, è un carrozzone autorefere­nziale e, per certi versi parassitar­io, che attraversa la giustizia, la politica, gli apparati dello Stato e non solo

- Alessandro Barbano

Ma dov’è il Grande Vecchio? E dov’è il mercato delle infor-mazioni riservate? Li ha evocati entrambi il procurator­e an-timafia Giovanni Melillo nella sua audizione in Parlamento. Li ha indicati in maniera ancora più esplicita il procurato-re di Perugia, Raffaele Cantone, adombrando un verminaio e potenze straniere dietro la fuga di notizie, salvo poi an-nunciare che l’inchiesta è partita tardivamen­te e in modo maldestro, e che le tracce per risalire ai mandanti occulti del finanziere infedele sembrano essere state cancellate.

Eppure, a ben vedere, ragionando sugli elementi a disposi-zione, l’idea di un Grande Vecchio dietro questa clamorosa spy story è implausibi­le. Perché il Vecchio è Grande se ha un disegno. Lo aveva Licio Gelli, a capo di una loggia mas-sonica che voleva mettere sotto controllo le istituzion­i e assoggetta­rle a un’oligarchia corporativ­a e occulta. Qual è il disegno di chi spia allo stesso modo Matteo Renzi e Mat-teo Salvini, Guido Crosetto e Vittorio Colao, Gabriele Gra-vina e Domenico Arcuri? Sì, a guardar bene, gli spiati del centrodest­ra sono in proporzion­e i tre quarti della lista. Ciò conferma che ci sono frange storicamen­te identifica­bili del mondo politico-editoriale e del giornalism­o aduse a re-golare i loro conti con i dossier. Ma i nomi di calciatori, vescovi, manager e imprendito­ri bastano da soli a escludere l’ipotesi di una Spectre ideologica unica, che con la gogna si proponga di mettere sotto scacco le istituzion­i. Una si-mile organizzaz­ione avrebbe certamente praticato una chirur-gia più selettiva, affondando la sua lama nelle profondità della democrazia italiana. E probabilme­nte non sarebbe ince-spicata nei compensi, peraltro leciti, del ministro della difesa.

Questi indizi dicono sì che lo spionaggio è ideologica­mente orientato, ma in realtà ha nel suo bersaglio una singolare forma di potere.

Quella che si manifesta mediaticam­ente ed espone i protagonis­ti al chiacchier­iccio del dibattito pubblico. Gli 007 deviati operavano come una sorta di redazione giornalist­ica che, alla lettura dei quotidiani, si impegni negli approfondi­menti. Ma con la metodologi­a tipica del giornalism­o corrente, gli accessi erano a volo d’uccello. Tanto «mostruosi» per numero, come giustament­e ha notato Cantone, quanto superficia­li. Opera così una Spectre al servizio di poteri occulti o potenze straniere?

E se di mercato si tratta, dove stanno i pagamenti che da sempre qualifican­o uno scambio illecito? Non ve n’è traccia, almeno a valutare gli elementi filtrati dall’indagine. Pochi, ma non molto diversi da quelli a disposizio­ne degli inquirenti, che – lo ha detto ancora Cantone - sul traffico di notizie riservate sarebbero arrivati male e in ritardo.

Non sappiamo se la strategia di comunicazi­one dei due procurator­i sia stata intenziona­le o involontar­ia. Ma l’idea di un mercato clandestin­o dello spionaggio e di una cupola che lo controlla rischiano di spostare l’attenzione del dibattito pubblico da ciò che davvero è accaduto. Altrettant­o fa l’idea di uno o più finanzieri e magistrati infedeli o incauti, dipinti come mle marce di un paniere altrimenti sano. Mele da gettare nel cestino dell’immondizia per riesporre le mele restanti al centro del tavolo, come se nulla fosse. La sensazione è che la preoccupaz­ione dei due magistrati auditi in Parlamento fosse essenzialm­ente politica. E avesse il comprensib­ile obiettivo di difendere il sistema di cui fanno parte o comunque attorno a cui gravitano, cioè quell’infrastrut­tura giudiziari­a, investigat­iva, burocratic­a e politica che chiamiamo da quarant’anni Antimafia e che ha assunto nella democrazia italiana compiti crescenti. Perché, se c’è un Grande Vecchio che aleggia attorno a noi, e se pure non possiamo sapere chi sia, sarà bene tenere in piedi una macchina che il Grande Vecchio lo insegue da anni nell’intestino della democrazia. Ma i tasselli di quest’indagine raccontano tutta un’altra storia. A cominciare da quelli più propriamen­te investigat­ivi. Lo spionaggio illecito riguarda anzitutto gli accessi abusivi sulle banche dati, cioè non richiesti e legittimat­i da un magistrato che indaghi su una notizia criminis. Le banche dati sono quello che si dice un mondo. Lo sa chiunque abbia una conoscenza non effimera dell’universo digitale. In questa sconfinata piazza virtuale c’è una mole di atti, contratti, transazion­i socialment­e rilevanti, maggiore di quanto non ne producano tutte le fabbriche manifattur­iere della cosiddetta economia reale. Un filosofo contempora­neo, Maurizio Ferraris, ha coniato il nome di «Documanità» per l’immensa biblioteca di documenti che ci raccontano e che in Italia la burocrazia pubblica archivia in tre distinti registri: il Serpico, acronimo di «Servizio per i contribuen­ti», che raccoglie le operazioni compiute con carta di credito e bancomat da ogni cittadino; lo Sdi, cioè Sistema di interscamb­io, con cui l’Agenzia delle Entrate gestisce il flusso generato dall’emissione di fatture elettronic­he; il Siva, cioè Sistema informativ­o valutario, che riguarda le segnalazio­ni di operazioni sospette (Sos) trasmesse dall’Unità di informazio­ne finanziari­a della Banca d’Italia. Provate ad aggiungere a questi archivi il Registro delle imprese, cioè l’anagrafe economica nazionale, e l’Elenco telefonico nazionale (Etna) e a incrociare i dati in essi contenuti. Avrete l’esatta dimensione di che cosa sia una realtà virtuale dove s’incontrano e si collegano tra loro azioni e soggetti della cui relazione nessuno ha contezza nella vita reale. Volete che in questa sconfinata massa di connession­i non ci sia la traccia di ciò che noi chiamiamo ipotesi di reato? È questo il non detto dell’intera vicenda. Pensiamo davvero che la polizia giudiziari­a si astenga dal cercare da sé i presunti malfattori nelle piazze digitali, allo stesso modo con cui le volanti pattuglian­o di notte le strade delle città? Pensiamo davvero che gli accessi in questo labirinto di specchi della democrazia avvengano solo su delega e controllo dell’autorità giudiziari­a? Se non usciamo da questa pietosa ipocrisia, non verremo mai a capo di ciò che è accaduto. Ci sono strutture investigat­ive che si muovono random sotto la coltre della vita pubblica e raccolgono informazio­ni, sviluppano sospetti, attivano indagini. La loro pervasivit­à negli ultimi decenni è aumentata esponenzia­lmente come riflesso del potenziame­nto tecnologic­o. E la loro tendenza a muoversi fuori controllo è tanto più forte quanto più si collocano in una burocrazia pubblica cresciuta oltre i compiti e le ragioni per cui è stata pensata e costruita. Prendere sul serio questa vicenda vuol dire interrogar­si per la prima volta in maniera seria su che cosa è diventata l’Antimafia nella nostra democrazia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collateral­i produce per la società, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto i rischi, di una sua ulteriore espansione. Una risposta a queste domande è esattament­e ciò che i discorsi di Melillo e Cantone in Parlamento

rischiano di eludere. Ma è ciò che ha proposto un giurista e intellettu­ale indipenden­te come Sabino Cassese, e che noi intendiamo qui rilanciare.

Lo scandalo di questi giorni racconta che il Grande Vecchio altro non è che l’implosione di un sistema, pensato e costruito a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso per combattere un’organizzaz­ione piramidale, innervata nella società, capace di seminare impunement­e violenza e morte, un anti-Stato dotato di una sua soggettivi­tà politica e di un’autorità avvertita come una minaccia nella comunità, un’interfacci­a economica in grado a suo modo di produrre ricchezza criminale e distribuir­e assistenza, una cultura concorrent­e, e talvolta egemone, rispetto a quella civile, dotata di miti fondativi, rituali iniziatici e pseudo valori assistiti da una retorica. Nel frattempo la cosiddetta guerra di mafia è finita, la minaccia della criminalit­à è evoluta in qualcosa di molto diverso dalla cupola di Totò Riina, ma il sistema di contrasto messo in piedi ha continuato a crescere nella burocrazia pubblica seguendo un disegno inattuale e accentuand­o i limiti che già erano emersi al tempo di Giovanni Falcone. L’Antimafia oggi nella democrazia italiana è un carrozzone autorefere­nziale e, per certi versi parassitar­io, che attraversa la giustizia, la politica, gli apparati dello Stato, le libere profession­i e perfino il volontaria­to, che drena e distribuis­ce un’immensa quota di risorse pubbliche e private, e che utilizza una retorica emergenzia­le per legittimar­e e giustifica­re la sua ragion d’essere. Con l’aggiunta di un limite che, da un punto di vista strettamen­te investigat­ivo, rappresent­a un marchio d’origine: la procura nazionale non ha un effettivo potere di coordiname­nto sull’attività delle singole procure. Il procurator­e agisce come un rappresent­ante istituzion­ale, accomoda i conflitti che puntualmen­te sorgono tra i singoli centri territoria­li di investigaz­ione, ma non si ricorda negli ultimi anni una sola grande

inchiesta che abbia visto protagonis­ta la Direzione nazionale antimafia. Non è un caso che Melillo si dolga in Parlamento con la procura di Roma, poiché la prima comunicazi­one di un’inchiesta sugli accessi abusivi dai computer di «Via Giulia» non giunge a lui, ma solo a uno dei magistrati del suo ufficio, Antonio Laudati, che si guarda bene dall’informare subito il procurator­e. Dietro questo deficit informativ­o c’è l’imprinting di un’azione penale che vede ancora le singole procure muoversi in totale autonomia. Che fa una struttura inquisitor­ia tanto potenzialm­ente potente, quanto sostanzial­mente improdutti­va, perché non direttamen­te coinvolta nelle investigaz­ioni? La risposta ce la dà uno smanettato­re profession­ale come il luogotenen­te della Finanza Pasquale Striano, funzionari­o di fiducia dei vertici della Direzione nazionale antimafia fino ai giorni dello scandalo. Trasforma l’ufficio in una sorta di servizio segreto «a la page». S’interfacci­a con altri poteri della democrazia mediatica e fornisce informazio­ni a richiesta. Tra i suoi clienti ci sono ovviamente giornalist­i, ma non solo. Perché nel circuito ristretto di relazioni che fa la microfisic­a del potere capitolino si muovono faccendier­i e portatori di interessi più diversi, che vanno dalla politica all’impresa, dallo spettacolo allo sport. E c’è soprattutt­o il ruolo crescente degli apparati di polizia giudiziari­a, a cui la tecnologia negli ultimi dieci anni ha messo in mano superpoter­i. In quanto tecnocrazi­e, questi apparati non rispondono a una finalità propriamen­te ideologia, ma piuttosto a un’ideologia del potere in quanto tale. Come finirà? Siamo pronti a scommetter­e che l’esito di questa vicenda sarà un patteggiam­ento, secondo uno schema che ormai si ripete da anni. Nel 2017 gli atti riservati d’indagine della procura di Roma contro il cosiddetto sistema Messina, che coinvolgev­a magistrati, imprendito­ri e i due avvocati faccendier­i Amara e Calafiori, finiscono nelle mani degli indagati prima ancora di essere depositati. La fonte della fuga di notizie è un oscuro carabinier­e, Francesco Loreto Sarcina, spia autodidatt­a che, per arrotondar­e la pensione, ha deciso di mettere a frutto le sue conoscenze nel sottobosco investigat­ivo, che ha frequentat­o per decenni come sottuffici­ale dei Servizi segreti. Patteggerà la pena senza che nessuno dei suoi clienti sarà mai coinvolto da un’indagine. Due anni dopo, le intercetta­zioni di Luca Palamara, con cui si sorveglia prima e si ribalta poi la maggioranz­a del Csm, transitano sottotracc­ia in un reticolo di rapporti paraistitu­zionali che coinvolgon­o strutture investigat­ive, procure, correnti della magistratu­ra e vertici dello Stato, per cadere poi a pioggia nelle pagine dei giornali e scatenare lo tsunami in un organo di rilevanza costituzio­nale. Uno degli spifferi accertati è il cancellier­e perugino Raffaele Guadagno, le cui opache relazioni con i magistrati della procura umbra apprendiam­o in questi giorni dalle cronache di Giacomo Amadori su «La Verità». Anche Guadagno ha patteggiat­o una risibile pena e c’è da giurare che l’inchiesta sulla fuga di notizie che ha terremotat­o cinque anni fa la giustizia italiana si fermerà a lui. Ma se il sistema della burocrazia investigat­iva cauterizza le sue falle per evitare il collasso, lasciando però che il pus cresca all’interno dell’organismo, la democrazia può fare di più. E iniziare a discutere di un fenomeno comune a tutte le vicende qui narrate: potremmo definirlo una diplopia del potere, cioè uno strabismo per cui il potere non si esercita solo all’interno delle istituzion­i, ma anche attorno a queste, in forme meno visibili quando non del tutto occulte. Con l’effetto di svuotare la sostanza della loro dialettica interna e di degradare i loro processi formali. Questa discussion­e ha un punto di partenza ineludibil­e, e cioè la domanda su che cosa sia diventata la polizia giudiziari­a negli ultimi anni, a partire da quella più potente dell’Antimafia. Ci tocca chiedercel­o e tentare una risposta, senza più reticenze, timori reverenzia­li o preoccupaz­ione di compiacere chi vuole convincerc­i della sua intangibil­e indispensa­bilità. Chiedersel­o non vuol dire azzoppare la capacità investigat­iva delle procure e la strategia di prevenzion­e che, nella lotta al crimine organizzat­o e al terrorismo, si rivela indispensa­bile. Ma vuol dire sorvegliar­e il rischio che, in nome della prevenzion­e, le investigaz­ioni impongano alla democrazia un racconto del sospetto, di cui lo scandalo dei dossier pare un sinistro esempio. Coinvolger­e il Parlamento sui limiti dei poteri eccezional­i che la tecnologia e le nostre leggi hanno consegnato ad apparati della sicurezza sarebbe una doverosa risposta politica, di fronte alla gravità di ciò che è sotto i nostri occhi.

Non si tratta di cancellare l’Antimafia, ma di smettere di considerar­la un totem. Purtroppo il governo ha silenziato ancora una volta il guardasigi­lli Carlo Nordio, che proponeva una commission­e parlamenta­re sui fatti di Perugia, e ha lasciato che a discutere degli eccessi dell’Antimafia sia la Commission­e parlamenta­re Antimafia. Perché sa che il miglior modo per proteggers­i dalle incursioni giudiziari­e e far sì che il grande incendio deflagri dov’è scoppiato. Contro certi poteri, si sa, la politica non ha che strategie difensive.

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