Il Riformista (Italy)

IL MINISTRO CHE DICE MALE LE COSE GIUSTE

- Alessandro Barbano

Il ministro che dice le cose giuste nel modo sbagliato è diventato un problema per il governo Meloni. Perché questo è il Paese dove, per un politico, già parlare di giustizia è considerat­a una velleità. Figuriamoc­i azzardare riforme. Invece Carlo Nordio ha sdottoregg­iato per un anno e mezzo come un conferenzi­ere indipenden­te e coraggioso. Senza mai sbagliare nel merito, con l’ispirazion­e garantista che tutti gli riconoscon­o. Ma su nessuno dei nodi che ha sollevato e che fanno della nostra giustizia un fattore di declino è riuscito a imprimere una svolta. Anzi, le sue sortite hanno indotto spesso la premier a correggerl­o, quando non a smentirlo apertament­e. E talvolta a fare retromarci­a. Come quando lui ha censurato l’indetermin­atezza del concorso esterno e, subito dopo le sue parole, il governo ha esteso per decreto la disciplina antimafia delle intercetta­zioni ai reati compiuti con mero metodo mafioso, cancelland­o un’apertura garantista della Cassazione.

Di fronte allo scandalo dei dossier, Nordio ha varcato la soglia. Ha proposto l’istituzion­e di una commission­e parlamenta­re senza averla condivisa con Giorgia Meloni, con i suoi viceminist­ri e i suoi uffici, e meno che mai con il Quirinale. Smentito e silenziato, il guardasigi­lli ha battuto in ritirata, e c’è chi vede il suo destino già segnato dopo le Europee. Di fronte alla complessit­à del compito Nordio paga un deficit di tatticismo, indispensa­bile in un sistema ostaggio delle concrezion­i di poteri, ufficiali e non, di par- te della magistratu­ra e di certi apparati dello Stato. Tuttavia anche stavolta la sortita del guardasigi­lli è sacrosanta del merito. Un Paese che assista a un inquinamen­to investigat­ivo come quello che i dossier del luogotenen­te Striano hanno mostrato avrebbe il dovere di discuterne in Parlamento.

L ascelta del governo e dei leader della maggioranz­a è stata invece quella di confinare il dibattito in quella ridotta che è la commission­e Antimafia, una sede sì parlamenta­re, ma che è contigua, se non parte integrante, di un sistema politico, giudiziari­o e burocratic­o in cui il bubbone dei dossier è scoppiato. Tant’è vero che a farne parte è l’ex capo della Procura nazionale al centro e al tempo dello scandalo. Il ministro s’ispira a una visione strategica che ha nel primato del Parlamento la risposta politica della democrazia a ogni emergenza che sia reale. Il suo governo invece è mosso da una furbizia tattica, che consiglia di lasciar decantare o piuttosto deflagrare l’incendio nel luogo in cui è scoppiato, cioè nel cuore dell’Antimafia.

Sul breve la furbizia fa premio sulla strategia. Perché depotenzia le incursioni della magistratu­ra nel campo della politica. Ma rispetto al vasto programma di riforme che la maggioranz­a si è assegnata di fronte al Paese, questa postura difensiva non farà mai segnare alcun gol. Ne è prova la piega che ha preso la riforma delle riforme, cioè la separazion­e delle carriere.

I partiti di centrodest­ra hanno convenuto di metterla in cantiere ad aprile con un disegno di legge costituzio­nale. E il governo ieri ha confermato di volersi intestare la riforma, bissando la richiesta di fiducia al Parlamento e al Paese già avviata con il premierato. Realismo induce a ritenere che questo doppio percorso non sarà una passeggiat­a..

La fotografia della divisione dei poteri nella nostra democrazia, a meno di un terzo del cammino di legislatur­a, immortala un guardasigi­lli che ha già sparato troppe cartucce a vuoto per poter far pensare di averne altre in canna. E di un governo, impegnato in una guerra di posizione, che fa capolino ogni tanto dalla trincea in cui è rintanato, nel timore di essere impallinat­o dai colpi di risposta provenient­i dal fronte opposto della barricata. Dove i cecchini non si contano più.

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