I conti non tornano: mancano 32 miliardi per tagliare le tasse
Ore frenetiche per impostare e scrivere il Def, la consegna a Bruxelles è prevista tra il 10 e il 30 aprile Il Pnrr getta lunghe ombre e, nonostante gli sforzi del ministro Fitto, la coperta è corta
Giorgia Meloni ha il vento in poppa. Il successo in Abruzzo ha cancellato lo choc Sardegna, la crescita di Forza Italia rafforza il patto con il centro moderato di Tajani e mette governo e maggioranza al riparo da strappi estremisti e a proprio agio nel vento europeo, atlantista, centrista. Salvini è vissuto come un terzo incomodo ma solo fastidioso e non più pericoloso: la premier quasi non si cura più delle sue quotidiane fughe in avanti e dei suoi tatticismi. Sa già come vanno a finire, come la storia del terzo mandato. O come l’autonomia regionale: per i prossimi due anni non ci saranno i soldi (tra i 20 e i 30 miliardi) per adeguare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e quindi la riforma sarà al momento solo su carta. Non operativa. Per Salvini una bandierina issata a metà.
La premier ha ritrovato il sorriso e ormai parla senza timore di “traguardi di legislatura” come sulla riforma fiscale e sulle privatizzazioni. Dalla sua ci sono anche i dati economici: nel 2023 l’Italia è cresciuta dello 0,9, più di tutti gli altri paesi europei; il tasso di disoccupazione è allo 7, 7 (meno 0,4 per cento rispetto al 2022) e prosegue la crescita, come nei due anni precedenti, degli occupati (+481 mila, +2,1% in un anno). Lo spread è ai minimi dal 2021 e gli indici di Borsa regalano sorrisi. Certo, il quadro internazionale è complicato, difficile, sempre in bilico, ma il governo è affidabile, stabile e saldamente posizionato dalla parte giusta: Nato e patto atlantico, con buona pace dei pacifisti rossobruni che si agitano anche nella sua maggioranza.
Il vento in poppa, si diceva, anche perché una grossa mano gliela danno certamente le opposizioni che, nonostante gli inviti del professor Romano Prodi, non riescono neppure a fare colazione insieme al bar. Vedere la Basilica per capire e poi “morire”. Così la premier ha buon agio nel far vedere che lei si occupa d’altro, di dare affidabilità e sostanza al Paese, cioè di governarlo. Il ministro Fitto ha appena informato il Parlamento che sul Pnrr va tutto bene, anzi benissimo anche se la Corte dei Conti dice che stiamo spendendo poco e l’Ufficio parlamentare di bilancio chiede maggiore trasparenza e precisione nelle decisioni. Ieri la premier ha presieduto la prima cabina di regia di quel Piano Mattei per l’Africa che a fine gennaio ha ospitato a palazzo Madama 46 leader africani e i vertici europei. Gli obiettivi primari sono tre: far crescere l’economia africana, fermare le migrazioni nel senso il traffico di esseri umani, togliere acqua a chi ben prima di noi e dell’Europa, cioè Cina e Russia, hanno messo mani e piedi nel continente africano e sulle sue ricchezze. Materie prime che fanno gola anche all’Italia.
E all’Europa.
Vista così è la cronaca di un successo dorato e anche duraturo. Ma non è tutto oro quel che luccica. E basta allungare un po’ lo sguardo e diventa chiaro che i conti non tornano. E che ben presto, entro la fine di aprile al massimo, in piena campagna elettorale per le Europee, Meloni dovrà inventarsi qualcosa di potente e anche clamoroso per continuare a dire che va tutto bene.
Ne sanno qualcosa al Ministero delle Finanze dove i tecnici e il ministro Giorgetti sono al lavoro da settimane per impostare e scrivere il Def, ovvero il principale strumento di programmazione economica del governo che riporta gli obiettivi, le stime sull’andamento delle finanze pubbliche e dell’economia nazionale e le riforme che l’esecutivo intende attuare. La consegna a Bruxelles è prevista tra il 10 e il 30 aprile. Considerando che c’è Pasqua di mezzo, in pratica ci siamo. Ci saranno in quel documento i numeri dell’economia italiana, le stime di crescita, debito, rapporto deficit/pil per il 2025.
Ora il punto è che nel 2025 il governo dovrà finanziare alcune spese “fisse”. Significa trovare 16 miliardi solo per non fare aumentare le tasse: il taglio del cuneo per gli stipendi fino a 35 mila euro, il taglio dell’Irpef, il canone Rai, tutti tagli non strutturali e che quindi vanno rifinanziati. Serviranno almeno 5-6 miliardi per le cosiddette “politiche invariate” (a cominciare dalle missioni all’estero) e altri 12 miliardi per ridurre il deficit in base alle regole del nuovo patto di stabilità, quello approvato a fine dicembre, regalo di Natale, e che Giorgetti avrebbe preferito rispedire indietro. Fatta la somma, parliamo di 32 miliardi per non fare nulla, cioè per lasciare le cose come stanno. Ora, Meloni ha sempre detto che nel 2025 finanzierà queste misure grazie alla maggior crescita. Ma Bankitalia dice che nel 2024 la crescita del Pil sarà esattamente la metà di quella attualmente prevista: lo 0,6% contro l’1,2%. Da dove salteranno fuori questi 32 miliardi? La risposta è a suo modo semplice: o aumentano le tasse e quindi le entrate o taglia la spesa. Entrambe non sono belle notizie. Esiste anche una terza via: le privatizzazioni. Nei documenti programmatici si parla di venti miliardi entro la fine della legislatura (2027). Obiettivo ambizioso di non facile realizzazione.
Anche il Pnrr, vanto e orgoglio di palazzo Chigi (i refrain: “lo abbiamo modificato quando tutti ci dicevano che non potevamo farlo”; “abbiamo incassato tutte le rate cosa che nessuno ha fatto in Europa”) getta lunghe ombre. Nonostante gli sforzi del ministro Fitto, certamente un gran lavoratore dopo aver accentrato nel suo ufficio tutti i Fondi di spesa, dal Pnrr ai Fondi coesione. Proprio in queste ore l’Ufficio parlamentare di bilancio ha valutato l’ultimo decreto che ha modificato il Pnrr e ha illuminato quello che i giornali avevano già ribattezzato “il gioco delle tre carte”. In pratica per finanziare i nuovi progetti del Piano di ripresa e resilienza vengono tagliati investimenti previsti da altri fondi di spesa. Il nuovo Piano rivisto e approvato dall’Europa prevede sedici miliardi aggiuntivi che sono sedici miliardi in meno per i Comuni e per i ministeri. Il più penalizzato è il Fondo Sviluppo e coesione (5 miliardi) che riserva l’80 per cento delle risorse al Sud. La ragione sembra andare a quei governatori del sud che stanno denunciando lo scippo di risorse al territorio che ne avrebbe più bisogno. Ma, secondo Fitto, non lo sa utilizzare.
La presidente dell’Upb Lilia Cavallari ha definito “non esaustive le informazioni sulla destinazione delle nuove risorse e sui definanziamenti”. E ha invitato il governo ad essere più chiaro e preciso già a partire dal Def indicando con precisione l’impegno annuale sulle misure del Pnrr e su quelle del Piano nazionale complementare (il fondo gemello svincolato però dai check di Bruxelles). Il punto è che anche il Pnc è stato svuotato alla ricerca di coperture. Come possono testimoniare le Regioni che hanno visto un taglio di un miliardo e 200 milioni al fondo dedicato all’edilizia ospedaliera.
Professor Guido Tabellini, dal suo osservatorio qual è lo stato di salute dell’Italia? Per il terzo anno il nostro Pil cresce nel 2023 più della media europea e l’export mantiene il suo valore totale. Tuttavia questi risultati non sono frutto solo della resilienza del sistema produttivo, ma anche dei circa venti miliardi del Pnrr e di molte decine di miliardi del Superbonus e di altri crediti di imposta. C’è chi plaude al nuovo miracolo italiano e chi si chiede che cosa sarebbe successo se non avessimo innaffiato l’economia a colpi di deficit mai visti negli ultimi trent’anni. Lei che ne pensa? «L’economia italiana sta crescendo più del resto dell’Europa e ci sono altre indicazioni positive che vengono dall’andamento dei conti con l’estero, dallo spread, che è sceso a livelli più bassi di quando ha avuto inizio il governo Meloni, dall’inflazione, che pure si è abbassata. Non sappiamo che onere e che effetto abbiano avuto esattamente le misure del Pnrr e del Superbonus. Possiamo però fare un’osservazione superficiale, riferita alla storia d’Italia. Il boom seguito al dopoguerra fu effetto di quella che chiamiamo una crescita di inseguimento, cioè una grande rimonta sulla frontiera tecnologica e sul livello di sviluppo dei paesi più avanzati che l’Italia ha compiuto per imitazione. Non è escluso che questo fenomeno, in forme diverse, si stia ripetendo e che forse iniziamo a vedere gli effetti di una maggiore digitalizzazione della nostra economia e dei nostri servizi, cioè di quelle innovazioni che, nate negli Stati Uniti, hanno preso via via ad espandersi nel nostro Paese. Questa ipotesi è incoraggiante, ma non ci sottrae dall’onere di investire ancora di più sull’economia digitale, poiché le trasformazioni in atto sono rapidissime».
Ma la discesa dell’inflazione non sarà in parte effetto di un calo dei consumi? Converrà che si tratta quantomeno di un segnale ambivalente.
«È più bassa che nel resto d’Europa. Quali che siano le cause, è indizio di un aumento di competitività. Perché in passato, di fronte ad altrettanti rallentamenti della crescita, l’inflazione è rimasta alta».
Non le pare che una linea di continuità bipartisan colleghi governi di segno diverso, che si sono avvicendati alla guida del Paese negli ultimi anni, e che hanno ancorato sempre e troppo la spesa pubblica alla ricerca del consenso? La politica distributiva, fatta di bonus, o incentivi diretti a costruire una domanda inesistente, non è esattamente quella leva fiscale in grado di mobilitare la ricchezza privata e metterla in circolazione virtuosa nel sistema.
«Sì, è accaduto sempre nell’ultimo decennio, fatta eccezione durante il gabinetto Monti. Ma bisogna riconoscere che tutti questi governi hanno avuto un orizzonte temporale corto. Hanno pensato a raccogliere consenso sul breve, commettendo tra l’altro un errore di prospettiva. Perché hanno ignorato che gli effetti delle loro misure avrebbero comunque sopravanzato la loro durata. Cosicché hanno patito tutti quel fenomeno di “incumbent disvantage”, per cui chi governa paga nell’urna, perché non ha il tempo per raccogliere gli effetti positivi di ciò che programma. La temperie perennemente elettorale della politica italiana è specchio di un sistema istituzionale che accorcia i tempi di vita degli esecutivi». Adesso il governo annuncia una riforma fiscale per alleggerire il ceto medio, cioè quei cittadini che dichiarano più di 50mila euro e che sono i veri perdenti della globalizzazione, perché erroneamente considerati benestanti. Ma, scopri scopri, la riforma fiscale è un “mettere qui e togliere là”. Perché nessun governo ormai pensa neanche lontanamente di sfoltire la spesa pubblica? «La spesa pubblica che andrebbe tagliata è quella per pagare le pensioni. In gran parte riflette stagioni passate e una stagnazione dei redditi lunga decenni. Ma la spesa per sanità, ricerca e istruzione dovrebbe crescere. Si tratta di rivedere le priorità, per spostare l’asse che regola il rapporto tra le generazioni. E poi bisogna stare attenti ai segnali che, con la fiscalità, si mandano al Paese».
Si riferisce al condono del governo Meloni? Converrà che incoraggiare le imprese più infedeli verso il fisco a dichiarare meno del reddito effettivo, grazie a un concordato, e poi a liberarsi di eventuali cartelle esattoriali inevase dopo cinque anni, non è un bell’esempio.
«No, non lo è. Non solo perché fa salire il carico fiscale delle imprese che le tasse le pagano. Ma perché incoraggia questo sottobosco economico a non innovarsi, a non finanziarti sui mercati e quindi a restare un’economia sub-sviluppata. Oggi lo Stato ha tutti gli strumenti elettronici per combattere l’evasione, incrociando le sue banche dati. Può farlo senza vessare il contribuente onesto e senza dover fare regali alle imprese meno trasparenti e meno produttive».
Il tema dei salari è stato per il governo un banco di prova scottante. Meloni ha fatto sua l’analisi del CNEL, secondo cui un salario minimo orario, stabilito per legge, non è lo strumento più adatto a contrastare il lavoro povero e le basse retribuzioni. Lei che pensa?
«Penso che Meloni abbia fatto bene. L’idea del salario minimo è comprensibile in via di principio. L’evidenza empirica mostra che in diverse occasioni non ha danneggiato l’economia e ha aumentato le retribuzioni dei lavoratori che non hanno potere contrattuale. Tuttavia c’è il rischio, correttamente sottolineato dal CNEL, che il salario minimo sia fissato a un livello politico e non economico. Nel nostro Paese questo rischio è doppio. Per l’incidenza che ha la politica e perché la produttività è geograficamente eterogenea, cioè è troppo diversa tra Nord e Sud. Il livello politico del salario minimo politicamente immaginato era probabilmente troppo alto per il Sud».
Ma se questo è vero, la soluzione sono le gabbie salariali? Oppure il rinvio della definizione dei salari alla contrattazione di secondo livello, come accade in molti paesi dove il salario minimo esiste? «Bisognerebbe avere il coraggio di accettare una diversa geografia dei salari, magari cominciando a legarli al costo della vita. Catania non è Milano. Si potrebbe introdurre questo meccanismo nel settore pubblico. Il privato risponderebbe adeguandosi. Capisco che è una scelta politicamente difficile, ma è più giusta. A questa misura bisognerebbe poi affiancare un robusto incremento della contrattazione aziendale, per valorizzare la produttività prescindendo dal contesto geografico. È questa la strategia per connettere la politica dei salari alla giustizia sociale e per impedire che al Sud dilaghi il lavoro nero».
«C’è, soprattutto nel pubblico, l’esigenza di rendere meritocratico il sistema e selezionare i dipendenti migliori in base alle caratteristiche di cui c’è bisogno».
Il tema del merito è la grande incompiuta delle politiche pubbliche degli ultimi decenni. Per anni è stata una bandiera, a destra ma anche a sinistra. La sinistra sembra essersene pentita, la destra l’ha accantonata trovando più conveniente accomodarsi con le corporazioni. Perché, secondo lei, l’Italia ha fallito sul merito?
«Penso che si sia rinunciato ad avere un sistema meritocratico nella burocrazia statale. Avremmo molto da imparare dai paesi asiatici, a cominciare dalla Cina e Singapore. Ma al pari del merito abbiamo fatto con la concorrenza».
Converrà che sulla concorrenza la natura corporativa del bacino elettorale del centrodestra abbia avuto in questo scorcio di legislatura un peso decisivo. Balneari, tassisti, agricoltori, magistrati…
«Su questo fronte il governo ha fatto non pochi errori. A cominciare dai tassisti, che sono un problema in tutte le grandi città. Bisogna introdurre nei servizi pubblici elementi di competitività. Se anziché sussidiare il servizio pubblico sussidiassimo i consumatori, avremmo già cambiato qualcosa. Almeno potremmo far pagare più tasse agli studenti delle famiglie abbienti».
Questo accade nei sistemi di flat tax, che sposta la progressività fiscale da una diversa onerosità delle aliquote a una diversa onerosità dei servizi. Era una delle bandiere del governo Meloni, poi è servita solo per blindare il consenso delle partite Iva.
«Nei paesi che devono raccogliere una grande quantità di imposte, come il nostro, la flat tax non è praticabile. Meglio recuperare base imponibile riducendo le tantissime deduzioni fiscali, dietro alle quali ci sono gli interessi delle categorie».
L’innovazione avrà il potente driver dell’intelligenza artificiale. L’Europa si è data una cornice legale che la porrà al riparo dai cosiddetti effetti collaterali? In Italia prevale su questo tema un allarme che altrove, in Europa, non si avverte con la stessa intensità. Lei è preoccupato?
«Un po’ di preoccupazione è difficile non averla, perché nessuno è in grado di capire quali siano gli sbocchi di processi tecnologici che avvengono a una velocità impressionante e che aumentano sempre di più il potere economico e politico di alcune company americane. Allo stesso tempo c’è la preoccupazione di restare esclusi da questa trasformazione, per la quale occorrono investimenti plurimiliardari che è difficile rinvenire nelle singole statualità. Rischiamo di restare un continente che si specializzato su tecnologie intermedie, come l’auto, ma non nei settori digitali sui quali l’intelligenza artificiale fa la differenza». «Ho paura che abbiamo perso il treno e che non bastino più risorse pubbliche per colmare la distanza che ci separa da queste grandi imprese. Oggi il potere di determinare il futuro sviluppo della società è in capo a loro assai più che al governo americano».
Draghi invoca la leva del “debito buono” per fare la difesa comune europea, per governare le transizioni e per proteggere i perdenti della globalizzazione. Lei che pensa? «Sfide come la difesa, il clima, l’energia, l’immigrazione hanno un senso solo se affrontate su scala continentale e, in alcuni casi, globale. Concordo con la sua visione. Nella misura in cui i benefici di queste politiche riguarderanno le generazioni future è corretto pensare che la leva possa essere il debito pubblico e non soltanto le imposte. Ciò non toglie che partiamo in alcuni paesi da un livello di debito che è già troppo alto. Bisogna stare attenti e non pensare che sia un invito per noi italiani a far salire ulteriormente il nostro».
«È un compromesso a cui si è giunti per i veti di un piccolo partito tedesco, che cerca di recuperare voti con una retorica del rigore. Ma ci fa fare molti passi indietro. La bozza che estendeva la discrezionalità della Commissione nel valutare il percorso di rientro dei singoli paesi era una buona soluzione».
Ma una struttura non elettiva e tecnocratica, per quanto legittimata dalla fiducia del Parlamento, può ingerire nelle scelte politiche delle cancellerie sovrane, senza che il populismo ne tragga un argomento di propaganda?
«Non si tratta di ingerire nella sovranità, cioè nella scelta delle politiche statuali, ma nell’efficacia rispetto all’obiettivo di ridurre il debito. Questa è una valutazione tecnica che è giusto sia rimessa ai tecnocrati. Così come deleghiamo la politica monetaria alla Banca centrale e l’Antitrust a un’agenzia indipendente. Dovremmo abituarci ad accettare questa dialettica tra decisore politico e controllore tecnico, che è la vera essenza della democrazia. Non è detto per altro che i politici tutelino le generazioni future più di quanto possa fare un organismo tecnico. Tuttavia hanno ragione, in un certo senso, i populisti quando sostengono che in Europa le decisioni più importanti vengono prese senza tener conto della volontà dei cittadini. Per questo non sarei contrario all’elezione diretta del Presidente della Commissione. Ma resterebbe sempre un ambito tecnico di valutazione, delegato a un’autorità indipendente dalla sovranità popolare. La democrazia è bilanciamento di poteri
e saperi».
Non per essere zelanti su una scivolata, può capitare a chiunque. Ma anche per chi crede nella fecondità degli errori il caso della scelta del candidato alla regione Basilicata è veramente significativo. In un’epoca di crisi profonda della rappresentanza, del ruolo dei corpi sociali e dei partiti, le modalità con cui si ricorre alla “società civile” e cosa è considerata tale ci dice molto sul rapporto tra la politica e la realtà. È una lunga storia che viene da quando il Pci, distinto e distante dal mondo cattolico candidava “il cattolico”, “il medico”, “il professionista”, “il civico” per una messinscena che tradiva l’incapacità vera di dialogo con quel mondo.
Oggi, il 90 per cento del dibattito nel centrosinistra è sulle alleanze ma quando serve dare operatività alle coalizioni crolla tutto. Condivido la necessità di generosità dei partiti più grandi di essere “testardamente unitari” ma abbiamo visto che esserlo solamente “perché altrimenti arrivano le destre” fa arrivare proprie le peggiori destre. La cronaca di quanto accaduto in Basilicata è surreale. Il Partito Democratico trova un candidato, Angelo Chiorazzo di Senise ma dopo i risultati dell’Abruzzo ripartono i veti. Una volta partiva la fase vera e finta dell’autocritica, ora ci si scanna sull’alternativa penosa se perdere da soli o insieme. Conte mette il veto sul candidato moderato e su Italia Viva e Azione. Il candidato naturale, il 2 volte ex ministro della sanità Roberto Speranza, non ha dato alcuna disponibilità e Chiorazzo accetta il passo indietro a patto di poter decidere lui chi sarà il candidato che lo sostituirà. Una scelta politica che pertanto, dovrebbe essere il risultato di un processo “democratico” di rappresentanza diventa “di proprietà”, una prerogativa del candidato in pectore che molla a patto di decidere lui. Il gruppo dirigente locale non viene neanche interpellato e l’ex candidato viene “indennizzato” con una sorta di “diritto” di disporre della scelta su chi rappresenterà la coalizione. Non solo, si dà l’idea che scorrendo la rubrica telefonica si trovi la prima disponibilità alla lettera “L”. “Lacerenza” è sicuramente un bravo oculista, che a sua insaputa, in pochi minuti diventa il candidato del campo largo. Lo stesso, confessa di non aver mai fatto politica nemmeno per hobby e da subito gli si chiede di fare un passo indietro ma lui tiene il punto. Avevamo già visto nel 2022 candidature “forti e rappresentative” rifugiarsi nei listini bloccati ben a distanza dai territori di provenienza. Dirigenti nazionali che (a Roma) dicono che i livelli locali “non rappresentano nessuno” e infatti come scelto dalla segreteria Letta e da tutti gli altri partiti del centrosinistra, le espressioni del territorio finirono negli uninominali “ineleggibili” e i catapultati scelti da Roma nei listini bloccati. E visto lo scollamento totale col Paese ci si affida alla roulette delle rubriche personali. Dal periodo in cui andavano di moda i giornalisti televisivi il mantra della “mancanza di visione” avrà fatto approdare proprio agli oculisti. La situazione è veramente grave e poco seria. La politica non tornerà ad essere rappresentanza se non ricostruiamo le regole dei partiti. Va applicato con legge l’art.49 (e il 39) della Costituzione. La trasparenza e la democraticità di funzionamento dei processi decisionali, del tesseramento, dell’utilizzo delle risorse, di obbligo di rotazione, non sono “interna corporis” (fatti interni). Devono valere per tutte le forze politiche, anche per interrompere la mutazione progressiva verso “partiti personali”, fan club o comitati elettorali che stanno vivendo le forze politiche. La garanzia di democraticità di un partito dipende da quanto l’applicazione delle regole superi sempre la forza del consenso. Le regole devono valere a prescindere da chi comanda in un determinato momento. Applicarle solo quando confermano il nostro consenso è quanto di più lontano dalla democrazia. La rappresentanza non è un “fatto privato” e la Costituzione riconosce, in modo chiaro, le forme in cui essa si esercita. É incredibile che le decisioni siano in mano a quattro persone. Delle primarie non si ha più notizia e nessuno ha spiegato perché ma nessuno ne ha chiesto conto. Le regole non sono attuali? Si cambiano, le deroghe contingenti o ad personam non fanno parte della cultura democratica, Proprio nel momento in cui bisogna tornare a far bella la democrazia e riconquistare la partecipazione popolare, non ha senso fare quadrato sui passi falsi, serve l’umiltà di non esagerare.
Se l’Abruzzo era l’Ohio d’Italia, allora la Basilicata rischia di essere il Vietnam del campo largo. Il candidato giallorosso Domenico Lacerenza doveva essere la soluzione per unire il Pd e il M5S, ma sta diventando solo un altro problema per la segretaria Elly Schlein. Una leader che è già alle prese con il caos per la composizione delle liste per le elezioni europee. Un puzzle in cui è difficile far combaciare le varie caselle. Perciò sarebbe tramontata l’ipotesi della candidatura di Emma Bonino come capolista almeno in una circoscrizione sotto le insegne dei dem. Una soluzione che avrebbe facilitato il lavoro di Schlein sulle liste, ma che è stata accantonata. Troppo fragili gli equilibri da rispettare tra le varie correnti del Nazareno. Troppi i pretendenti per un posto da capolista per il Pd. Ma partiamo dalla Basilicata. La regione, al voto il 21 e 22 aprile prossimi, è ancora un dossier caldo sulla scrivania di Schlein. La giornata di ieri, infatti, è partita con un appello di diversi dirigenti del partito lucano per il ritiro di Lacerenza dalla corsa elettorale. “Ritirare la candidatura da presidente della Regione Basilicata di Domenico Lacerenza o promuoviamo il polo dell’orgoglio lucano”, è questa la richiesta che arriva da elettori, sindaci e dirigenti del Pd e del centrosinistra della Basilicata. Il documento è stato pubblicato ieri dai giornali locali ed è stato diffuso anche da Giovanni Petruzzi, coordinatore della mozione di Gianni Cuperlo all’ultimo congresso nazionale del Partito Democratico. Petruzzi e gli altri sottoscrittori dell’appello chiedono la convocazione della segreteria regionale del Pd, “che non ha mai discusso né deliberato la candidatura a presidente di Lacerenza”. Nel testo si propone un ritorno sulla candidatura di Angelo Chiorazzo, civico che sembrava essere il candidato designato da parte dei dem locali. Il ritorno del re lucano delle coop bianche viene chiesto anche da una petizione lanciata sui social e sulla piattaforma Change.org. Per tutta la mattinata sono ancora forti le voci su un passo indietro dell’oculista. Eppure il tempo stringe e manca meno di una settimana alla presentazione delle liste. Per questo motivo il Pd smentisce le indiscrezioni sul ripensamento del medico e ribadisce: “Avanti con Lacerenza”. Scaccia le voci di un ritiro anche Alfredo D’Attorre, della segreteria nazionale del Pd: “Escludo che ci sia un ripensamento su di lui ad oggi”.
Intanto monta il dissenso all’interno del Pd lucano e tra i riformisti a livello nazionale. La critica della minoranza è così riassumibile: “Seguire Conte e perdere Azione e Italia Viva ci porta verso la sconfitta”. I partiti dell’ex Terzo Polo, in Basilicata, hanno un peso elettorale ben maggiore rispetto al M5S. “Vi rendete conto dello scempio che state facendo per andare dietro a Conte?”, scrive su X Carlo Calenda, rivolgendosi a Schlein. La questione è ormai di respiro più ampio rispetto alla piccola Basilicata e investe direttamente il Nazareno. Dove temono di non riuscire a trovare candidati per formare le liste in sostegno a Lacerenza e sono preoccupati dal “fuoco amico” degli scontenti del Pd lucano, pronti a far votare Bardi sottobanco. Renzi ricorre all’ironia: “Mi colpisce molto questa involuzione del centrosinistra, quando c’ero io si facevano le primarie. Adesso chiamano il primario, potremmo dire che hanno scelto un oculista, perché non li hanno visti arrivare”. Il presidente di Iv lascia aperta la porta di un sostegno a Vito Bardi, del centrodestra: “Ho un’antica amicizia con lui, che confermo. Vedremo. Decideranno i dirigenti locali di Italia Viva”. E ancora: “Bardi è oggettivamente un buon candidato”. Da Azione, invece, arriva un nuovo colpo di scena dall’ex governatore Marcello Pittella, che apre a Chiorazzo dopo aver osteggiato la sua candidatura negli ultimi mesi. “Mi sembra che Conte abbia lanciato una sorta di Opa sulla Schlein. Ma il Pd regionale non pone veti, anzi vuole allargare. Chiorazzo può tornare anche per noi in pista”, spiega Pittella. Ma il M5S resta fermo su Lacerenza e Pittella è sempre più vicino a Bardi. Nella girandola dei nomi ricompare il presidente della provincia di Matera Piero Marrese, del Pd. Per Lorenzo Guerini, big dei riformisti dem, “bisogna arrivare a una candidatura che sia sostenuta da un orizzonte largo”.
La vera vittima dello stallo è Schlein, con un campo largo ostaggio di veti reciproci. E intanto va a rilento la composizione delle liste per le europee. La segretaria pensa di candidarsi seconda o terza in tutte le circoscrizioni. Ma, complice l’alternanza di genere, è complicato definire un quadro che assicuri un equilibrio tra amministratori riformisti forti sul territorio, schleiniani e società civile. Per questo sembra definitivamente tramontata l’ipotesi di una corsa di Bonino capolista nelle liste del Pd. Troppo affollamento. Più Europa va avanti con il progetto della lista per gli Stati Uniti d’Europa insieme a Iv, Volt, Psi, Liberaldemocratici e Radicali Italiani.
Calenda sconcertato: “Vi rendete conto dello scempio che state facendo per andare dietro a Conte?”. Anche Renzi non esclude il sostegno al governatore uscente di centrodestra: “È oggettivamente un buon candidato, decideranno i dirigenti locali”
Che aria tira tra i riformisti di Italia Viva, Azione, Più Europa? Se per le Europee si vota tra 85 giorni, per la Basilicata la chiamata alle urne è già il 10 aprile. E vanno al rinnovo dei sindaci centinaia di Comuni, dai più grandi ai più piccoli, dove solo la costruzione di un fronte comune dei centristi potrebbe portare a risultati degni di nota. Ma il bollettino meteo volge, a seconda dei casi, ora al nuvoloso e ora alla tempesta. È il caso di +Europa dove il bastian contrario Federico Pizzarotti, Presidente del partito da un anno, ieri ha rovesciato il tavolo con un tweet al vetriolo: «Da notizie di stampa, ho appreso della riunione convocata giovedì dal segretario Riccardo Magi alla quale mi pare di capire ne seguirà un’altra il prossimo martedì, per la formazione di una lista di scopo per gli Stati Uniti d’Europa alle prossime elezioni europee». I radicali guidati da Magi e Della Vedova – nel segno di Emma Bonino – avrebbero promosso l’incontro a sua insaputa, par di capire. «Personalmente - come tanta parte della dirigenza di +Europa, dei suoi attivisti e degli elettori - credo che nella costruzione della nostra partecipazione elettorale sia imprescindibile il dialogo tra Più Europa e Azione, che è attualmente la forza più grande dell’area politica liberaldemocratica ed è insieme a Più Europa un partito membro dell’Alde. Rinunciare al dialogo e alla collaborazione tra Più Europa e Azione è una scelta che non posso condividere, sulla quale chiederò un confronto politico al segretario Riccardo Magi e alla direzione del partito». Aria di resa dei conti. Pare che ciascuno, dalle parti di Renew Europe, si sia attrezzato per trattare, in vista delle Europee, di giorno con gli uni e di notte con gli altri. «Noi parliamo con tutti. Come tutti», la fulminante sintesi del segretario del Psi, Enzo Maraio. Il convitato di pietra dei soggetti che stanno intorno a Renew si chiama Partito Democratico. Le opzioni però non sono le stesse per tutti. Azione può andare da sola, sfiorando già il 4%. Oppure con tutti gli ‘europeisti’, o con la sola +Europa, o con il solo Pd. Il partito di Riccardo Magi può optare per Azione, l’insieme degli ‘europeisti’ o il solo Pd. Italia Viva ha due sole chances: con tutta Renew italiana o da soli. Si moltiplicano, in rete, gli appelli all’unità. Il professor Marco Mayer, analista della Luiss e attivista impegnato sul fronte di Renew Europe in Italia, rivolge a sua volta una preghiera a Calenda: «Il contributo di Azione è importante per una lista unitaria di Renew Europe. Impegniamoci tutti insieme per spiegare a Calenda il delicatissimo passaggio storico che l’Europa sta attraversando e che impone unità di Intenti e non divisioni». Alessio D’Amato, ex candidato presidente del Lazio ed esponente di Azione, dov’è a capo del dipartimento del Welfare nella segreteria nazionale, non chiude a nessuna ipotesi: «Sulle Europee bisogna capire le condizioni reali. Se c’è un accordo con +Europa e le componenti liberaldemocratiche, ben venga. Non c’è un veto su Italia Viva, perché non si fa la politica con i veti, le esperienze difficili vanno superate. C’è una bruciatura sulle esperienze pregresse. Sul passo indietro eventuale di Renzi non sta a me decidere. Io auspico fino all’ultimo che si possano trovare le possibilità. Azione ha dimostrato di avere un certo consenso, che può sempre crescere. Non andremo con il Pd, lo escludo: oggi ha un tratto di subalternità ai Cinque Stelle
che non aiuta». Il ragionamento di D’Amato è che sulle Europee, come sulle regionali, devono prevalere «pari condizioni e affinità politiche. E noi siamo una forza riformista, liberaldemocratica, liberalsocialista». Se così fosse, e i veti cadessero davvero, l’accordo tra Magi, Renzi e Calenda potrebbe prendere forma già nei prossimi giorni. L’appuntamento del tavolo a via Santa Caterina da Siena, sede di Più Europa, è aggiornato a martedì 19. A quella data bisognerà arrivare almeno con una road map aperta per la lista unitaria e con un percorso tracciato sulla Basilicata. Sull’eventuale sostegno di Italia Viva a Vito Bardi, candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Basilicata, «decideranno i dirigenti lucani di Iv», ha detto il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, aggiungendo di avere un rapporto di «antica amicizia con Bardi, che confermo». Ora che il centrosinistra pare avere escluso le forze dell’ex terzo polo dalla coalizione «vedremo quello che succederà» e noi «sosterremo loro scelta parlando di Basilicata» ha aggiunto riferendosi ai dirigenti lucani di Iv. In ogni caso l’ex premier ha osservato che «le elezioni territoriali riguardano quei Comuni o quelle Regioni, non hanno valore nazionale, non c’è nessun vento» che cambia o meno come è stato detto dopo il voto in Sardegna e in Abruzzo.