L’impero di Putin appare più debole e lo zar si “rifugia” nell’atomica
“La Russia non nè stabile nè normale” scrive Affair, arriva Internet per uso esclusivamente russo, definitiva forma di censura. Ma Putin appare nervoso, la sensazione è che ci sia qualcuno più in alto di lui che muova i fili A San Pietroburgo un seggio è
C’è qualcosa al Cremlino che non va. Ed è il potere reale di Vladimir Putin che sembra più incerto e non totalmente sotto il suo controllo. Segni di crepe si sono visti fin dall’8 febbraio quando la Commissione Centrale per le Elezioni ha dato l’annuncio che persino il più innocuo dei rari candidati a piede libero, Boris Nadezhdin, era stato escluso dal partecipare alle elezioni. Motivo? Ha delle opinioni diverse da quelle di Putin sulla guerra. Otto giorni dopo Alexey Navalny morì di colpo nell’ex Gulag “Lupo polare” e fonti interne alla prigione diffusero la notizia che Navalny era stato indebolito da venti ore trascorse all’aperto a trenta gradi sottozero, e poi abbattuto con pugno all’altezza del cuore. Una specialità del KGB. Poi la tragedia dei funerali con Mosca che si andava raccogliendo intorno alla chiesa. La polizia sequestrava i fiori, la polizia identificava i passanti, la polizia distruggeva i “memorial” volanti sulle strade ma non ha potuto far nulla quando il gruppo dei sostenitori del leader dell’opposizione morto hanno scelto di portare fiori in un luogo dove nessuno avrebbe potuto minacciarli: il “Memorial delle vittime dello stalinismo”. Tonnellate di fiori, una fila continua di gente che voleva mostrare la propria distanza dal governo russo. Mentre si svolge la parata rituale che va sotto il nome di libere elezioni della Federazione russa, si notano parecchi segnali di sfaldamento sia nella società che nei suoi vertici anche se i progressi militari in Ucraina sono tristemente veri è interamente subiti le sofferti dall’esercito e dalla popolazione Ucraina. Putin stesso è cambiato: la sua testa si è fatta totalmente rotonda, gli occhi immersi in una rosea pinguedine: il cambiamento è accelerato da quando il caso Navalny ha permesso ai riflettori di ogni Paese di illuminare lo spot disadorno del Cremlino. Ieri è arrivata la notizia secondo cui è quasi pronta una nuovissima Internet per uso esclusivamente russo, imposta ai cittadini come una definitiva forma di censura, il che vuol dire, come scrive Andrei Kolesnikov su Foreign Affair, che “la Russia non è stabile né normale” e anzi avanza verso uno stato di crisi politica, benché Putin, senza neanche il bisogno di ricorrere alle urne, si sia assicurato il potere fino al 2036, grazie al referendum del 2020. Con questa cinta muraria di protezioni e precauzioni, il controllo totale sulla stampa e su internet, Putin dovrebbe esser tranquillo, ma non lo è. Ogni giorno, ieri compreso, ripete che la Russia risponderà con armi atomiche non ad una aggressione dall’Occidente, ma – attenzione – alla “percezione” di essere aggrediti. Bisogna ricordare che con questa storia dell’aggressione continuamente temuta come ai tempi di Napoleone e di Hitler, è fatta di due soli esempi: l’invasione napoleonica e quella tedesca nel giugno 1941. Putin ha fatto diventare una legge il divieto a chiunque di dire, scrivere, raccontare e mostrare come l’aggressione hitleriana all’Unione Sovietica avvenne come rottura di un’alleanza che aveva coperto quasi due anni di guerra: i sottomarini tedeschi venivano a fare il pieno nei porti russi prima di silurare nell’Atlantico i convogli americani che portavano armi e rifornimenti all’Inghilterra. Senza quell’alleanza nazi-comunista non ci sarebbe stata una Seconda guerra mondiale, che infatti i russi per prudenza chiamano con un altro nome: Grande Guerra Patriottica. Putin ha provveduto a rappezzare anche la Storia e a punite eventuali storici. Ma, a 71 anni la sua marcia trionfale deve aver cominciato a rallentare e stonare: dov’è finito il Putin scattante dai tratti sottili? Le voci di una cura ad alte dosi di cortisone, si moltiplicano. Poi spariscono e poi tornano in auge. Ma chi lo segue sul canale YouTube l’ha visto decadere: non parla ma bisbiglia. Così è accaduto anche durante l’intervista con Tucker Carlson, anchorman televisivo americano, dove sono stati rari i momenti memorabili o i successi retorici di Putin, il quale del resto ha accusato il giornalista americano di aver saputo fare “le domande giuste”.
Il problema della guerra di come andare avanti è diventato un problema politico oltre che militare. Perché se è vero che da una parte l’industria militare russa (adatta alle esigenze di potenza media) si sta trasformando in una industria militare statale di dimensioni da grande potenza, dimenticate dai tempi dell’Unione Sovietica, è anche vero la guerra in Ucraina è impantanata su entrambi i fronti. Ieri il presidente francese Emmanuel Macron, che aveva ipotizzato senza consultarsi con gli alleati un possibile invio di soldati della Nato in Ucraina, è tornato alla carica con parole più sensate: “Noi non vogliamo vincere nessuna guerra. Noi vogliano soltanto che Putin non pensi di vincere la sua aggressione all’Ucraina”. E di novo Putin ha reagito promettendo bombe atomiche, piccole, medie e transcontinentali.
Putin non ha, o non ha più, il potere assoluto e gli hanno proibito di chiamare soldati di leva da strappare ai banchi di scuola e alle officine e mandarli al fronte a morire. Voleva, e gli hanno detto di no a causa di una pregiudiziale risibile come una commedia di Gogol. Quando decise di invadere l’Ucraina, il circolo degli oligarchi che contano (fra cui quelli che, stando al ribelle Prigozhin, gliela imposero) pretese una formula giuridica che avrebbe impedito l’accesso alle normali risorse richieste da una guerra. Lo obbligarono a restringersi in quella formula “Operazione militare speciale” come quella degli americani a Grenada o a Panama: vado, l’ammazzo e torno. Fin da subito con l’acqua alla gola, quanto a personale da combattimento, Putin vuotò subito le prigioni: voi galeotti potete combattere e morire, ma se sarete valorosi combattere ed essere liberi. Le prigioni sono vuote, i reclutatori si spingono a razziare maschi in età giovane nelle feste e persino nei matrimoni, Ma oggi lo spettacolo etnico della prima linea è cambiato diventando asiatico. Non solo i ragazzi delle repubbliche con gli occhi a mandorla, ma soldatacci di ventura presi in affitto in Cina, Indonesia, Borneo. Specialmente mercenari cinesi, bengalesi e gurkha: gli stessi che compongono per tradizione etnica, le élite più brutali di quel che resta dell’Impero britannico e che Margareth Thatcher usò contro i marinai argentini durante la guerra delle Falkland. Ma gli hanno vietato di fare una leva – il “draft” che persino gli americani furono costretti a lanciare durante la guerra in Vietnam con il risultato di una fuga di disertori americani in Canada. Putin non è libero di decidere di chiamare i giovani in età di leva, vestirli come soldatini e spedirli al fronte dopo un brevissimo addestramento. Vorrebbe, l’ha annunciato molte volte, ma non può: che cos’altro può significare se non che un potere a lui superiore glielo vieta? Con chi sta facendo i conti il Presidente della Federazione Russa:
Anche queste giornate elettorali puramente celebrative, che cosa potranno mai contare? Non la nascita di un altro partito antagonista, ma certificare il numero dei votanti che può rivelare molto sulla tenuta del rapporto fra governo e popolo.
Per Vladimir Putin, queste elezioni devono essere un plebiscito. E per ottenere questo risultato, il presidente russo non ha solo chiamato al voto i cittadini della Federazione parlando loro di una scelta “patriottica”, ma ha anche deciso di aprire i seggi elettorali nelle regioni che in questi due anni sono state occupate dalle truppe di Mosca. Per Putin è essenziale mandare un doppio messaggio. Il primo è quello della normalità. E cioè che adesso, anche con la guerra in corso, quei territori sono parte della Russia. E come tali devono dare l’idea di condurre una vita identica a quella del territorio nazionale. Tutto deve dunque apparire normale: come è apparsa normale la vita della Crimea dopo l’annessione. E tutto questo nonostante gli osservatori concordino che di normale, in queste elezioni nelle regioni occupate, vi è poco. Non lo è in Russia, dove 13 persone sono state arrestate per danni e attacchi contro i seggi elettorali, e con la presidente della Commissione elettorale Ella Pamfilova che ha accusato la regia di “bastardi venuti dall’estero”. E dove a San Pietroburgo un seggio è stato attaccato con una bottiglia incendiaria. E non è normale a maggior ragione nei territori invasi, dove la guerra continua a mietere vittime. Ieri, le autorità di Mosca hanno accusato le forze ucraine di avere bombardato un seggio elettorale nella zo
na di Kherson proprio mentre si svolgevano le elezioni presidenziali. Mentre a Odessa, sotto il controllo del governo ucraino, un raid russo ha provocato 20 morti. I territori invasi, che formalmente nessuno riconosce come parte della Federazione russa, sono terre in cui non vige l’ordinamento russo vero e proprio, ma un sistema in cui regna un ordine deciso da autorità locali e militari. Il numero degli elettori non è inoltre verificabile, così come i documenti che permettono di partecipare al voto. I seggi vengono controllati dalle forze armate e dalle autorità del posto. E in alcune aree, come affermato il mese scorso dagli stessi funzionari di Mosca, il voto è addirittura avvenuto casa per casa. Per il Moscow Times, quello che sta avvenendo nei territori del Donbass e nelle altre regioni ritenute ora parte della Russia è una “prova di lealtà”, in cui l’obiettivo è dimostrare la volontà della popolazione di essere coinvolta nel destino russo, e di farlo – in estrema sintesi – votando per Putin. E in questa scelta, rientra l’altro messaggio che ha voluto inviare il Cremlino aprendo i seggi in questi nuovi oblast del Paese: e cioè che lo “spazio russo”, il cosiddetto Russkiy Mir, è ormai parte integrante del sistema politico. Non si può dunque più parlare di semplice Federazione Russa, ma Putin, e con esso il suo sistema di potere, si rivolge ormai definitivamente a un mondo di “compatrioti” che vive uno spazio differente da quello dei confini ereditati dal presidente dopo la caduta dell’Unione Sovietica. E questo mondo è ormai la prospettiva in cui si concentra la politica interna ed estera di Mosca. Lo confermano non solo le procedure di voto nelle regioni occupate, ma anche un’altra scelta fatta dal Cremlino: quella di aprire i seggi in Transnistria. I media della regione filorussa della Moldova avevano annunciato l’apertura di sei seggi, di cui tre a Tiraspol e altri tre nel resto dell’autoproclamata repubblica separatista. La Moldavia ha da tempo avvertito Mosca di evitare questa mossa, lasciando che il voto dei cittadini russi nel Paese possa essere effettuato solo nell’ambasciata russa di Chisinau. Ma il Cremlino sembra volere andare dritto per la propria strada, con un voto che dovrebbe avvenire solo nella giornata di domenica. A differenza dei territori occupati dell’Ucraina orientale, che compongono la Nuova Russia immaginata da Putin, la Transnistria non è stata invasa né si considera già parte della Federazione russa. Ma per molti osservatori, quello che sta cercando di fare Putin è soprattutto sfruttare questa tornata elettorale nella regione moldava come un’arma particolarmente efficace della sua “guerra ibrida” verso la Moldavia ma anche verso l’Occidente. A fine febbraio, il governo separatista ha convocato il settimo Congresso dei deputati della Transnistria con il quale ha chiesto a Mosca anche la “protezione” dei suoi cittadini contro quelle che considera le “crescenti pressioni” da parte dell’esecutivo moldavo. La richiesta dei deputati filorussi ha rappresentato più di un campanello d’allarme per il Paese, soprattutto perché non è un mistero che la retorica della difesa dei “compatrioti” russi all’estero ha rappresentato spesso un volano non solo della narrativa del Cremlino, ma anche delle stesse azioni militari intraprese dalla Russia. Una su tutte la guerra in Ucraina, ritenuta non a caso annunciata come una “operazione militare speciale” sorta anche per tutelare le popolazioni russofone del Donbass. Per molti analisti, Putin non avrebbe in questo momento alcuna intenzione di intraprendere mosse di tipo bellico nei riguardi della Transnistria, e quindi contro la Moldavia. Ma per Chisinau, il piano di destabilizzazione è già evidente.
«Occidente è una parola che crea confusione». Andrea Graziosi (storico contemporaneista, tra i massimi esperti del mondo sovietico e post-sovietico) inforca gli occhiali e prova a spiegare. Gli chiederò, nel corso del nostro colloquio, di fare il punto sui conflitti in corso, in Ucraina e a Gaza, di riflettere sul futuro dell’Europa e sulla variabile Trump, di ragionare su riformismo e riforme in Italia, su una nuova casa dei riformisti, e non gli ci vorrà molto per mostrare tutta la sapienza dello studioso che, a ciglio asciutto, descrive lo stato delle cose e gli scenari realisticamente possibili, ma non riuscirò in nessun modo ad aggirare quella che mi appare la difficoltà principale posta sul tavolo: l’impasse in cui si trova quel pezzo di mondo che si riconosce in una stessa tradizione liberale e democratica, impastata di progressismo, di diritti, di economia sociale di mercato, di regimi aperti e inclusivi, di major discografiche e teatri off, di software libero e colossi tecnologici all’avanguardia.
«Guarda che l’officina del mondo non è più l’Occidente, ma la Cina. Sul piano militare, la sola Corea del Nord produce più proiettili di tutta l’Unione europea. Sul piano demografico, dobbiamo prendere atto che l’Occidente è fatto da popolazioni invecchiate. Ma, soprattutto, non puoi non vedere il distacco prospettico fra Stati Uniti ed Europa, i diversi interessi in gioco nei diversi teatri di crisi. Per questo dico che la parola Occidente oggi ingenera confusione: perché maschera questa realtà. L’Occidente si riconosce in, e io stesso naturalmente mi riconosco in - e difendo - una serie di princìpi e di valori di libertà: piacciono anche a me. Ma, sul piano politico e strategico, dell’Occidente del 1945 non vi sono che resti, per fortuna ancora imponenti. Andrebbero usati per costruire qualcos’altro. Guerra o non guerra, indietro non si torna, al vecchio ordine novecentesco non si torna».
Guerra o non guerra. Cosa sta succedendo, però? E, soprattutto, cosa succederà nelle prossime settimane, a cominciare dalla guerra in Ucraina?
«Per la Russia le cose oggi vanno decisamente meglio rispetto ai mesi scorsi. Putin ha saputo trovare nuove forniture militari – i droni dall’Iran, le munizioni dalla Corea del
Nord – e conta, dopo un breve intervallo di crisi, sullo stabile sostegno della Cina, mentre c’è una grande difficoltà per l’Ucraina a sostenere lo sforzo bellico, non potendo contare immediatamente come in passato sugli aiuti americani. Pesa l’ombra di Trump, che ha più volte dichiarato, in privato e in pubblico, le sue preferenze… Sul terreno, dunque, la situazione è difficile, ed è per giunta complicata dall’errore (benché, in quel frangente, comprensibile) di puntare, lo scorso anno, su una controffensiva che si è rivelata irrealistica. L’esercito russo era stato respinto e sconfitto ben due volte – sia l’esercito regolare che la compagnia Wagner – ma a quel punto sarebbe stato più prudente fare altre scelte. Ciò non vuol dire che oggi i russi siano sul punto di sfondare. Le capacità operative russe rimangono limitate. La Russia ha sicuramente una maggiore potenza di fuoco: può sparare fino a tre o quattro volte di più dell’Ucraina, ma non è in corso un’operazione di sfondamento, non ci sono colonne di carri armati sul campo. Le sorprese, ovviamente, sono sempre possibili, ma quella che si combatte oggi è una guerra di attrito, che può finire in modi diversi a seconda del valore che assumono alcune variabili». «Già. Putin comprende benissimo che la vittoria di Trump alle primarie apre per lui un periodo estremamente favorevole. Nessuno sa come andranno le elezioni a novembre, ma fino ad allora Trump controllerà il partito repubblicano nel modo più totale e questo rischia di mettere in forse per mesi il sostegno americano, il che apre a Putin una finestra di grande opportunità, che cercherà di sfruttare in ogni modo. Sul piano militare come su quello politico e ideologico, della propaganda».
In effetti, le incertezze e le esitazioni delle opinioni pubbliche sono oggi ben più evidenti che l’anno passato. Penso al clamore suscitato dalle parole del Papa, all’idea che Kiev non possa fare meglio che alzare bandiera bianca: sono davvero messe così, le cose? «Lasciami dire anzitutto che non è stata la prima uscita improvvida di papa Francesco, cui è seguita poi la rettifica del cardinale di turno. Ma aggiungo che è ragionevole pensare, per i tempi e i modi, a un’operazione innescata ad arte da Mosca. Si conosce l’atteggiamento sospettoso di Bergoglio nei confronti dell’Occidente, l’ammirazione per la cultura russa, un certo profilo intellettuale e ideologico. Si può fare leva su questi aspetti, e provare a dividere la Chiesa uniate ucraina dal Vaticano. Per Putin sarebbe un grande successo. Sul campo, però, lo dicevo prima, le cose stanno così: combatti contro un Paese tre volte più grande di te, che ha per giunta un arsenale nucleare (il che spiega la riluttanza europea ad aiutare Kiev), non puoi realisticamente pensare di sconfiggerlo definitivamente. O meglio: torno all’errore di prima. Dopo aver respinto l’avanzata russa, dopo i successi militari sulla Wagner, invece di usare la retorica del “ci riprendiamo tutto” si poteva e doveva dire che politicamente l’Ucraina aveva vinto la sua guerra d’indipendenza, che era vero. Dopo tutto, cosa si era preso Putin, per cosa aveva scatenato il conflitto? Oggi è diverso, perché profittando della finestra aperta da qui a novembre, Putin potrebbe provare ad arrivare fino a Odessa e alla Transnistria, e forse persino provare a prendere Kharkiv». «No, non si tratta di fare la pace, ma di firmare un armistizio. Realisticamente, una pace non è possibile, se significa riconoscere a Mosca territori strappati con la forza. Persino il segretario generale delle Nazioni Unite, Gutierrez, che non può essere descritto come filo-occidentale, sa che non si può accantonare il primo dei princìpi su cui si fonda la legalità internazionale. All’Occidente – a quel che ne resta – non rimane che dare il massimo sostegno a Kiev finché l’armistizio non sarà possibile».
Perché parli di resti dell’Occidente? Per via dell’isolazionismo di Trump? Perché la Nato è stata dichiarata morta da Macron? «Perché per gli Usa l’avversario oggi è la Cina. Era così già per Obama ed è così anche per Biden. Il quale è sicuramente legato – culturalmente e sentimentalmente – al vecchio Occidente, ma non ha un’idea diversa dai suoi predecessori di quale sia oggi la principale linea di confronto politico e militare. Né l’avrebbe Kamala Harris, se dovesse subentrargli. E la vera tragedia è che le due superpotenze, gli Usa e la Cina, non si parlano, non si riconoscono (in realtà si profila l’emersione di un’altra grande potenza, l’India, già almeno pari alla Cina, demograficamente e tecnologicamente. Ha un problema di unità nazionale, che la Cina non ha, ma la cosa interessante è che si tratta di una potenza anti-islamica, il che cambia molti giochi). Il reciproco riconoscimento fra superpotenze non ferma i conflitti, ovviamente, però rende relativamente più facile gestirli e soprattutto chiuderli. Oggi invece tutti quelli che vogliono aprire le ostilità, per un motivo o per l’altro, hanno una sponda su cui contare. Pensa ad Hamas, che non si sarebbe mossa se non entro questo quadro di instabilità globale, se non avendo dietro l’Iran, che a sua volta si è riavvicinato alla Russia. Chi vuole scatenare un conflitto ha oggi grandi facilità».
Se questo è il quadro, qual è il compito strategico che si disegna per noi europei? L ‘Europa rischia davvero l’irrilevanza? «Cominciamo col dire che l’Unione europea (termine che preferisco a Europa) non è una superpotenza. Non lo è sul piano militare, perché non è una potenza nucleare, lo è la Francia. E nel mondo di oggi non c’è altro modo di garantirsi la propria indipendenza se non dotandosi di capacità nucleare. Le guerre in corso lo dimostrano: se l’Ucraina, spinta dagli Stati Uniti, non avesse ceduto il proprio arsenale nucleare a Mosca dopo il disfacimento dell’URSS, non credo proprio che sarebbe stata attaccata da Putin. Nel Medio Oriente, è alla deterrenza nucleare che Israele affida la sua difesa di fondo. Al contrario di India e Cina la nostra Unione non ha questa capacità e dovrebbe forse cominciare a pensarci, se vuole esistere politicamente. Ha inoltre un problema di strutture decisionali, di costruzione statale. Che non può essere di tipo federalista – un sogno difficilmente realizzabile: le tradizioni nazionali sono forti – ma può essere immaginata come una sorta di confederazione “etnica” imperfetta, dotata di più poteri di quanti ne abbia adesso Bruxelles. Il che implica anzitutto il superamento del diritto di veto, che oggi paralizza l’Unione».
ponga dopo la Brexit, dopo l’invasione dell’Ucraina: non sono i segnali più evidenti del suo declino, di un inevitabile ridimensionamento delle sue ambizioni di essere un attore globale? «L’ambizione dipende dalla stazza, e nessuno Stato europeo, da solo, ce l’ha. Ma nemmeno il Regno Unito o la Russia ce l’hanno. La follia di Putin è stata anche questa: la Russia in Europa avrebbe un ruolo di primo piano; a rimorchio di Cina o India – paesi da un miliardo e mezzo di persone con grandi capacità tecnologiche e industriali, mentre la Russia ne conta circa 140 milioni – può essere solo un pupazzo. Ma il problema è proprio l’ideologia che avvicina Putin (o lo stesso Boris Johnson) a Trump, l’ideologia del “Make Yourself Great Again”. Questa ideologia non porta da nessuna parte. Di sicuro non può funzionare in Europa. Per questo l’Unione europea – deve provare a costruire, nel medio-lungo periodo, un sistema a cerchi concentrici. Fare un accordo di un certo tipo con il Regno Unito, di un altro tipo con la Russia del dopo Putin (parlo dunque in prospettiva). Non è facile, ma non ci sono altre strade». «Lì quello che sta succedendo, e forse non lo si dice abbastanza, è che sono anche i paesi arabi a lasciare che Israele prosegua nell’opera di sradicamento di Hamas. L’unico che tenta di dissuadere Netanyahu, Biden, è paradossalmente l’unico che realmente ci prova. Ma che pensare di al Sisi, che pochi giorni fa ha fatto condannare a morte otto esponenti di primo piano dei Fratelli Musulmani, parenti di una Hamas che ne è una filiazione diretta? Nel mezzo della guerra nella Striscia di Gaza, il Cairo manda un segnale direi inequivocabile. Il fatto è che, dopo il 7 ottobre, si pensava che Israele avrebbe avuto a disposizione non più di un mese, un mese e mezzo per le sue operazioni militari nella Striscia, ed è per questo che sembrava, ed è stata, una follia entrare in un territorio di due milioni di abitanti. Invece sono già trascorsi quattro mesi circa, e non mi pare che i paesi arabi stiano facendo pressioni vere per dissuadere Israele. Ora, si possono condannare quanto si vuole operazioni come quella che Netanyahu sta conducendo, e io sono il primo a condannarla, ma non è detto che non riesca, visti i margini di manovra che sta avendo. Troppi esempi ci sono nella storia di operazioni repressive su così larga scala (pensa a Putin con la Cecenia, o a Stalin con gli stessi ucraini, o alla lotta all’ISIS) che hanno però avuto successo, per non vederne la efficacia, per quanto drammatica, tragica, su un orizzonte temporale significativo».
Può darsi che funzioni con Hamas, a costi umani insopportabili, ma rappresenta anche una soluzione, una via di pacificazione possibile? «Io non vedo altra soluzione all’infuori della coesistenza di due Stati: non dico due popoli, perché provare a fare due entità etniche pure sarebbe una follia. Con Hamas la destra israeliana ha fatto un tragico errore, dandogli Gaza allo scopo di indebolire l’Autorità nazionale palestinese. Ora il gioco le si è ritorto contro. Ma in prospettiva il vero punto è la mediorientalizzazione di Israele, sempre meno Stato europeo, di origini europee, sempre più Stato medio-orientale. L’unica prospettiva realistica è l’integrazione stabile di Israele nel mondo medio-orientale. Che è precisamente quello che Hamas voleva e vuole impedire».
Abbiamo parlato finora di questioni internazionali, ma è il caso di dedicare qualche attenzione anche alle faccende di casa nostra, a un quadro politico segnato prevalentemente da forze o leader di segno populista, in cui i riformisti sono in evidente difficoltà. Non è una novità di quest’ultima stagione, ma anzi una costante che accompagna ormai da decenni la politica italiana, complice la debolezza delle culture politiche tradizionali e una forte volatilità del voto. «Parlare di riformismo al singolare è sbagliato. Le difficoltà di cui parli hanno radici lontane e impongono un confronto tra questa attuale stagione e quelle precedenti in cui il discorso riformatore cadeva in un quadro di crescita e di sviluppo. Fare riforme, negli anni Settanta, voleva dire dare, non togliere. Fare la riforma delle pensioni voleva dire dare la pensione a sessant’anni, o anche prima, non allontanare nel tempo l’età pensionabile. Fare la riforma sanitaria voleva dire dare a tutti l’assistenza medica, non introdurre il ticket sulle prestazioni di base. Tutti i tentativi riformisti vanno incontro a difficoltà inevitabili in un contesto di aspettative decrescenti, in cui riformare significa razionalizzare, ristrutturare, non allargare o estendere. Così i diversi tentativi che si sono succeduti – da Amato a Prodi, da Ciampi a Renzi a Draghi, passando per il Berlusconi riformista dei primi suoi anni – sono stati sconfitti. Certo è un problema gigantesco: come fare una politica razionale, necessaria ma quasi inevitabilmente impopolare, in una fase storica che non è più quella del miracolo economico e di un Occidente in salute».
Questo significa che dobbiamo rassegnarci: non c’è alternativa a politiche populiste, che in un paese dall’elevatissimo debito pubblico presentano forse anche rischi maggiori, e che non a caso richiedono spesso e volentieri robuste correzioni tecnocratiche? Questo è il pendolo, tra tecnocrazia e populismo?
«Significa forse che puoi sperare di orientare – di orientare ragionevolmente – una delle due forze populiste. La storia italiana degli ultimi anni è caratterizzata da un andamento maniaco-depressivo, con spostamenti elettorali incredibili nel giro di pochissimi anni. È andata così con Renzi, con Grillo, con Salvini, ora con Meloni. Prima grandi fiammate, poi grandi delusioni: gli elettori insoddisfatti si spostano dall’altra parte, o si rifugiano nell’astensione. Se ci inserisci i governi tecnici – una lunga fila, che comprende Ciampi, Dini, Monti, Draghi – hai il quadro di una società sempre più fragile dal punto di vista democratico. Che cosa prefigurano, queste soluzioni: una società del notabilato, fondata sul principio della supplenza? Ogni tanto devi andare fuori dalla politica per stabilizzare?».
Questo spiega anche i ripetuti tentativi di riforma delle istituzioni, una passione non so quanto condivisa dagli italiani, che però si fa sentire ad ogni legislatura, con esiti che non saprei giudicare apprezzabili, almeno finora. A quell’andamento maniaco-depressivo non si sottrae nemmeno questo tema: non c’è leader politico che non ci si provi, salvo rimediare solo sconfitte.
«Il fatto è che si è voluto adottare un sistema maggioritario in un paese che non lo è. Con un’evidente cecità anche rispetto ai cambiamenti futuri. Perché il maggioritario richiede una popolazione omogenea, ma se tu cominci ad avere due o tre milioni di italiani non nativi, questa condizione inizia a venir meno e ti si pone un problema di rappresentanza di queste fasce di popolazione, che è più facile assicurare in un sistema multipartitico. Per fortuna il sistema elettorale mantiene qualche elemento proporzionalistico».
Che è quello che lascia ancora qualche spazio all’idea di una casa comune dei riformisti. Ma per le ragioni che dici tu, non dovremmo pensare, invece di costruire un terzo polo, al modo in cui le forze riformiste possono condizionare dall’interno uno dei due poli? «Anche, e direi soprattutto se emergesse una nuova leadership riformista. Il fattore personale in politica conta, infatti, ha sempre contato, ma non farei certo affidamento su
Conte, che
Zingaretti
omaggiò del titolo di punto di riferimento fortissimo dei progressisti, o su Schlein. Lì tu hai per ora un polo tendenzialmente populista, a sinistra, come ce l’hai a destra. Ci sono differenze, all’interno – si vede bene che Meloni non è Salvini, e lo stesso si può dire tra democratici e Cinque Stelle, che non sono la stessa cosa – ma se vuoi intercettare la domanda di moderazione che c’è nel Paese (vedi anche il risultato di Forza Italia, in Abruzzo) allora hai il problema di trovare una casa dei riformisti, di cominciare a metterne insieme i pezzi, perché il riformismo italiano è esploso». È esploso, certo. E nessuno sa cosa c’è, dopo l’esplosione.
Sono passati quarantasei anni, quasi mezzo secolo, da quel maledetto 16/3/1978, il giorno in cui rapirono Moro. Lo Stato era in frantumi, la politica cercava faticosamente di rimettere insieme tutti quei frantumi sparsi e Moro sembrava essere l’unico tessitore capace di poter dare un senso di insieme a un paese slabbrato. Le immagini di via Fani disseminata di cadaveri e di pallottole, senza neppure un nastro che isolasse la scena del crimine, mentre il cronista televisivo passeggiava dolorosamente in mezzo a tutti quei bossoli, quelle immagini che abbiamo visto e rivisto mille volte in tv, sono il repertorio del nostro smarrimento di allora e forse anche di oggi.
Il ricordo di quei giorni e di quel clima ha scavato un solco che il tempo non ha avuto modo di colmare del tutto. Un solco forse ancora più profondo visto dalla parte di chi ha avuto la ventura di nascere dopo. All’indomani di tutto questo, per ogni anniversario che attraversiamo, viene facile consolarsi e pensare che la sfida di allora, giunta in fondo alle sue conclusioni, sia stata vinta. Ma temo che in realtà non sia stata una vittoria e che non ci sia una consolazione -e non solo per l’epilogo della morte di Moro. Infatti il terrorismo ha mostrato di avere dalla sua la forza di deviare la politica dai suoi percorsi, lasciandosi dietro una scia di sangue, di misteri e di sfiducia che per qualche verso arriva fino a noi. E se da un certo punto in poi è sembrato che il bandolo della matassa fosse tornato nelle mani dei “buoni”, questo è accaduto forse più per la sconfitta delle Brigate rosse che non per la vittoria dello Stato.
La verità più profonda è che il destino di Moro ha finito per racchiudere in sé e nella sua tragica conclusione un destino ancora più ampio: quello della salute della Repubblica. Laddove si è riusciti ad evitare il peggio, ma non a costruire il meglio. Tant’è che da allora ci arrovelliamo senza costrutto intorno a quella stessa crisi di sistema che Moro si illudeva di poter risolvere e che a noi pesa ancora addosso come un macigno. O magari come un destino.
C’è una giustificazione che può recare conforto a chi c’era allora. E cioè il fatto è che noi, allora, non sapevamo. Non sapevamo se l’agguato di via Fani fosse un episodio, drammatico, apocalittico, ma racchiuso in se stesso, affacciato sul vuoto. Oppure se quell’episodio fosse invece l’inizio di una catena di cui non potevamo prevedere, né tantomeno contrastare, gli sviluppi successivi. In questo caso, ci sarebbe stato da fare i conti con l’impossibilità di capire cosa mai potesse essere in cantiere, quali altre violenze e atrocità ci potessero venir riservate, fin dove potesse arrivare la potenza di fuoco delle Brigate rosse (e con quali sostegni all’estero). La politica di quei tempi fu paralizzata da questa incertezza, e la racchiuse quasi tutta nel dilemma tra fermezza e trattativa - senza peraltro che mai quel dilemma desse vita a una scelta limpida, codificata da una doverosa procedura politica. Quello che invece sapevamo, e che non potevamo non sapere, era che il terrorismo in quelle stagioni si era poggiato su di una base assai ampia, quasi di massa. La coscienza pubblica ha rimosso questo dato per la comodità delle sue notti insonni. Ma se solo accendiamo una piccola luce non possiamo non annotare come una parte non piccola e non irrilevante del paese di allora guardasse con una sorta di malcelata simpatia alla ribellione brigatista. Infatti furono in tanti, quel 16 marzo, ad applaudire il rapimento nelle scuole, nelle fabbriche, nei tinelli di casa. E non per caso l’attività terroristica continuò poi a imperversare per molti mesi, anche all’indomani della morte di Moro quando pure quel sentimento di ribellione aveva dovuto fare i conti con la mostruosità dei suoi esiti.
Non si trattò insomma, come avrebbe detto ai suoi tempi Benedetto Croce, dell’invasione degli Hyksos, spuntati da chissà dove, imprevisti e imprevedibili. Si trattò piuttosto, come scrisse lucidamente Rossana Rossanda, dell’album di famiglia della sinistra italiana. Merito straordinario della dirigenza del Pci fu quello di tagliare ogni connessione, ogni complicità, ogni indulgenza verso quella sfida. Che però, nel frattempo, si era guadagnata un’influenza di cui non ci saremmo liberati tanto presto.
Anni dopo viene facile consolarsi pensando che quelle ombre si siano a questo punto dissipate, forse una volta per tutte. È l’auspicio della mia generazione, che si trovò ad affacciarsi su quell’abisso, del tutto impreparata, nei suoi anni di formazione. Ma se qualcosa noi, ragazzi di allora, possiamo dire ai ragazzi di oggi, tanto lontani da quel drammatico trambusto, è che ogni democrazia è sempre fragile in se stessa. E che quella sua fragilità deve essere curata quotidianamente con un sentimento civile più forte di certe sue debolezze e più luminoso di molte sue opacità. Quello che tentammo di fare allora, senza riuscirci come volevamo.