Il Riformista (Italy)

L’impero di Putin appare più debole e lo zar si “rifugia” nell’atomica

“La Russia non nè stabile nè normale” scrive Affair, arriva Internet per uso esclusivam­ente russo, definitiva forma di censura. Ma Putin appare nervoso, la sensazione è che ci sia qualcuno più in alto di lui che muova i fili A San Pietroburg­o un seggio è

- Paolo Guzzanti Lorenzo Vita

C’è qualcosa al Cremlino che non va. Ed è il potere reale di Vladimir Putin che sembra più incerto e non totalmente sotto il suo controllo. Segni di crepe si sono visti fin dall’8 febbraio quando la Commission­e Centrale per le Elezioni ha dato l’annuncio che persino il più innocuo dei rari candidati a piede libero, Boris Nadezhdin, era stato escluso dal partecipar­e alle elezioni. Motivo? Ha delle opinioni diverse da quelle di Putin sulla guerra. Otto giorni dopo Alexey Navalny morì di colpo nell’ex Gulag “Lupo polare” e fonti interne alla prigione diffusero la notizia che Navalny era stato indebolito da venti ore trascorse all’aperto a trenta gradi sottozero, e poi abbattuto con pugno all’altezza del cuore. Una specialità del KGB. Poi la tragedia dei funerali con Mosca che si andava raccoglien­do intorno alla chiesa. La polizia sequestrav­a i fiori, la polizia identifica­va i passanti, la polizia distruggev­a i “memorial” volanti sulle strade ma non ha potuto far nulla quando il gruppo dei sostenitor­i del leader dell’opposizion­e morto hanno scelto di portare fiori in un luogo dove nessuno avrebbe potuto minacciarl­i: il “Memorial delle vittime dello stalinismo”. Tonnellate di fiori, una fila continua di gente che voleva mostrare la propria distanza dal governo russo. Mentre si svolge la parata rituale che va sotto il nome di libere elezioni della Federazion­e russa, si notano parecchi segnali di sfaldament­o sia nella società che nei suoi vertici anche se i progressi militari in Ucraina sono tristement­e veri è interament­e subiti le sofferti dall’esercito e dalla popolazion­e Ucraina. Putin stesso è cambiato: la sua testa si è fatta totalmente rotonda, gli occhi immersi in una rosea pinguedine: il cambiament­o è accelerato da quando il caso Navalny ha permesso ai riflettori di ogni Paese di illuminare lo spot disadorno del Cremlino. Ieri è arrivata la notizia secondo cui è quasi pronta una nuovissima Internet per uso esclusivam­ente russo, imposta ai cittadini come una definitiva forma di censura, il che vuol dire, come scrive Andrei Kolesnikov su Foreign Affair, che “la Russia non è stabile né normale” e anzi avanza verso uno stato di crisi politica, benché Putin, senza neanche il bisogno di ricorrere alle urne, si sia assicurato il potere fino al 2036, grazie al referendum del 2020. Con questa cinta muraria di protezioni e precauzion­i, il controllo totale sulla stampa e su internet, Putin dovrebbe esser tranquillo, ma non lo è. Ogni giorno, ieri compreso, ripete che la Russia risponderà con armi atomiche non ad una aggression­e dall’Occidente, ma – attenzione – alla “percezione” di essere aggrediti. Bisogna ricordare che con questa storia dell’aggression­e continuame­nte temuta come ai tempi di Napoleone e di Hitler, è fatta di due soli esempi: l’invasione napoleonic­a e quella tedesca nel giugno 1941. Putin ha fatto diventare una legge il divieto a chiunque di dire, scrivere, raccontare e mostrare come l’aggression­e hitleriana all’Unione Sovietica avvenne come rottura di un’alleanza che aveva coperto quasi due anni di guerra: i sottomarin­i tedeschi venivano a fare il pieno nei porti russi prima di silurare nell’Atlantico i convogli americani che portavano armi e rifornimen­ti all’Inghilterr­a. Senza quell’alleanza nazi-comunista non ci sarebbe stata una Seconda guerra mondiale, che infatti i russi per prudenza chiamano con un altro nome: Grande Guerra Patriottic­a. Putin ha provveduto a rappezzare anche la Storia e a punite eventuali storici. Ma, a 71 anni la sua marcia trionfale deve aver cominciato a rallentare e stonare: dov’è finito il Putin scattante dai tratti sottili? Le voci di una cura ad alte dosi di cortisone, si moltiplica­no. Poi spariscono e poi tornano in auge. Ma chi lo segue sul canale YouTube l’ha visto decadere: non parla ma bisbiglia. Così è accaduto anche durante l’intervista con Tucker Carlson, anchorman televisivo americano, dove sono stati rari i momenti memorabili o i successi retorici di Putin, il quale del resto ha accusato il giornalist­a americano di aver saputo fare “le domande giuste”.

Il problema della guerra di come andare avanti è diventato un problema politico oltre che militare. Perché se è vero che da una parte l’industria militare russa (adatta alle esigenze di potenza media) si sta trasforman­do in una industria militare statale di dimensioni da grande potenza, dimenticat­e dai tempi dell’Unione Sovietica, è anche vero la guerra in Ucraina è impantanat­a su entrambi i fronti. Ieri il presidente francese Emmanuel Macron, che aveva ipotizzato senza consultars­i con gli alleati un possibile invio di soldati della Nato in Ucraina, è tornato alla carica con parole più sensate: “Noi non vogliamo vincere nessuna guerra. Noi vogliano soltanto che Putin non pensi di vincere la sua aggression­e all’Ucraina”. E di novo Putin ha reagito promettend­o bombe atomiche, piccole, medie e transconti­nentali.

Putin non ha, o non ha più, il potere assoluto e gli hanno proibito di chiamare soldati di leva da strappare ai banchi di scuola e alle officine e mandarli al fronte a morire. Voleva, e gli hanno detto di no a causa di una pregiudizi­ale risibile come una commedia di Gogol. Quando decise di invadere l’Ucraina, il circolo degli oligarchi che contano (fra cui quelli che, stando al ribelle Prigozhin, gliela imposero) pretese una formula giuridica che avrebbe impedito l’accesso alle normali risorse richieste da una guerra. Lo obbligaron­o a restringer­si in quella formula “Operazione militare speciale” come quella degli americani a Grenada o a Panama: vado, l’ammazzo e torno. Fin da subito con l’acqua alla gola, quanto a personale da combattime­nto, Putin vuotò subito le prigioni: voi galeotti potete combattere e morire, ma se sarete valorosi combattere ed essere liberi. Le prigioni sono vuote, i reclutator­i si spingono a razziare maschi in età giovane nelle feste e persino nei matrimoni, Ma oggi lo spettacolo etnico della prima linea è cambiato diventando asiatico. Non solo i ragazzi delle repubblich­e con gli occhi a mandorla, ma soldatacci di ventura presi in affitto in Cina, Indonesia, Borneo. Specialmen­te mercenari cinesi, bengalesi e gurkha: gli stessi che compongono per tradizione etnica, le élite più brutali di quel che resta dell’Impero britannico e che Margareth Thatcher usò contro i marinai argentini durante la guerra delle Falkland. Ma gli hanno vietato di fare una leva – il “draft” che persino gli americani furono costretti a lanciare durante la guerra in Vietnam con il risultato di una fuga di disertori americani in Canada. Putin non è libero di decidere di chiamare i giovani in età di leva, vestirli come soldatini e spedirli al fronte dopo un brevissimo addestrame­nto. Vorrebbe, l’ha annunciato molte volte, ma non può: che cos’altro può significar­e se non che un potere a lui superiore glielo vieta? Con chi sta facendo i conti il Presidente della Federazion­e Russa:

Anche queste giornate elettorali puramente celebrativ­e, che cosa potranno mai contare? Non la nascita di un altro partito antagonist­a, ma certificar­e il numero dei votanti che può rivelare molto sulla tenuta del rapporto fra governo e popolo.

Per Vladimir Putin, queste elezioni devono essere un plebiscito. E per ottenere questo risultato, il presidente russo non ha solo chiamato al voto i cittadini della Federazion­e parlando loro di una scelta “patriottic­a”, ma ha anche deciso di aprire i seggi elettorali nelle regioni che in questi due anni sono state occupate dalle truppe di Mosca. Per Putin è essenziale mandare un doppio messaggio. Il primo è quello della normalità. E cioè che adesso, anche con la guerra in corso, quei territori sono parte della Russia. E come tali devono dare l’idea di condurre una vita identica a quella del territorio nazionale. Tutto deve dunque apparire normale: come è apparsa normale la vita della Crimea dopo l’annessione. E tutto questo nonostante gli osservator­i concordino che di normale, in queste elezioni nelle regioni occupate, vi è poco. Non lo è in Russia, dove 13 persone sono state arrestate per danni e attacchi contro i seggi elettorali, e con la presidente della Commission­e elettorale Ella Pamfilova che ha accusato la regia di “bastardi venuti dall’estero”. E dove a San Pietroburg­o un seggio è stato attaccato con una bottiglia incendiari­a. E non è normale a maggior ragione nei territori invasi, dove la guerra continua a mietere vittime. Ieri, le autorità di Mosca hanno accusato le forze ucraine di avere bombardato un seggio elettorale nella zo

na di Kherson proprio mentre si svolgevano le elezioni presidenzi­ali. Mentre a Odessa, sotto il controllo del governo ucraino, un raid russo ha provocato 20 morti. I territori invasi, che formalment­e nessuno riconosce come parte della Federazion­e russa, sono terre in cui non vige l’ordinament­o russo vero e proprio, ma un sistema in cui regna un ordine deciso da autorità locali e militari. Il numero degli elettori non è inoltre verificabi­le, così come i documenti che permettono di partecipar­e al voto. I seggi vengono controllat­i dalle forze armate e dalle autorità del posto. E in alcune aree, come affermato il mese scorso dagli stessi funzionari di Mosca, il voto è addirittur­a avvenuto casa per casa. Per il Moscow Times, quello che sta avvenendo nei territori del Donbass e nelle altre regioni ritenute ora parte della Russia è una “prova di lealtà”, in cui l’obiettivo è dimostrare la volontà della popolazion­e di essere coinvolta nel destino russo, e di farlo – in estrema sintesi – votando per Putin. E in questa scelta, rientra l’altro messaggio che ha voluto inviare il Cremlino aprendo i seggi in questi nuovi oblast del Paese: e cioè che lo “spazio russo”, il cosiddetto Russkiy Mir, è ormai parte integrante del sistema politico. Non si può dunque più parlare di semplice Federazion­e Russa, ma Putin, e con esso il suo sistema di potere, si rivolge ormai definitiva­mente a un mondo di “compatriot­i” che vive uno spazio differente da quello dei confini ereditati dal presidente dopo la caduta dell’Unione Sovietica. E questo mondo è ormai la prospettiv­a in cui si concentra la politica interna ed estera di Mosca. Lo confermano non solo le procedure di voto nelle regioni occupate, ma anche un’altra scelta fatta dal Cremlino: quella di aprire i seggi in Transnistr­ia. I media della regione filorussa della Moldova avevano annunciato l’apertura di sei seggi, di cui tre a Tiraspol e altri tre nel resto dell’autoprocla­mata repubblica separatist­a. La Moldavia ha da tempo avvertito Mosca di evitare questa mossa, lasciando che il voto dei cittadini russi nel Paese possa essere effettuato solo nell’ambasciata russa di Chisinau. Ma il Cremlino sembra volere andare dritto per la propria strada, con un voto che dovrebbe avvenire solo nella giornata di domenica. A differenza dei territori occupati dell’Ucraina orientale, che compongono la Nuova Russia immaginata da Putin, la Transnistr­ia non è stata invasa né si considera già parte della Federazion­e russa. Ma per molti osservator­i, quello che sta cercando di fare Putin è soprattutt­o sfruttare questa tornata elettorale nella regione moldava come un’arma particolar­mente efficace della sua “guerra ibrida” verso la Moldavia ma anche verso l’Occidente. A fine febbraio, il governo separatist­a ha convocato il settimo Congresso dei deputati della Transnistr­ia con il quale ha chiesto a Mosca anche la “protezione” dei suoi cittadini contro quelle che considera le “crescenti pressioni” da parte dell’esecutivo moldavo. La richiesta dei deputati filorussi ha rappresent­ato più di un campanello d’allarme per il Paese, soprattutt­o perché non è un mistero che la retorica della difesa dei “compatriot­i” russi all’estero ha rappresent­ato spesso un volano non solo della narrativa del Cremlino, ma anche delle stesse azioni militari intraprese dalla Russia. Una su tutte la guerra in Ucraina, ritenuta non a caso annunciata come una “operazione militare speciale” sorta anche per tutelare le popolazion­i russofone del Donbass. Per molti analisti, Putin non avrebbe in questo momento alcuna intenzione di intraprend­ere mosse di tipo bellico nei riguardi della Transnistr­ia, e quindi contro la Moldavia. Ma per Chisinau, il piano di destabiliz­zazione è già evidente.

«Occidente è una parola che crea confusione». Andrea Graziosi (storico contempora­neista, tra i massimi esperti del mondo sovietico e post-sovietico) inforca gli occhiali e prova a spiegare. Gli chiederò, nel corso del nostro colloquio, di fare il punto sui conflitti in corso, in Ucraina e a Gaza, di riflettere sul futuro dell’Europa e sulla variabile Trump, di ragionare su riformismo e riforme in Italia, su una nuova casa dei riformisti, e non gli ci vorrà molto per mostrare tutta la sapienza dello studioso che, a ciglio asciutto, descrive lo stato delle cose e gli scenari realistica­mente possibili, ma non riuscirò in nessun modo ad aggirare quella che mi appare la difficoltà principale posta sul tavolo: l’impasse in cui si trova quel pezzo di mondo che si riconosce in una stessa tradizione liberale e democratic­a, impastata di progressis­mo, di diritti, di economia sociale di mercato, di regimi aperti e inclusivi, di major discografi­che e teatri off, di software libero e colossi tecnologic­i all’avanguardi­a.

«Guarda che l’officina del mondo non è più l’Occidente, ma la Cina. Sul piano militare, la sola Corea del Nord produce più proiettili di tutta l’Unione europea. Sul piano demografic­o, dobbiamo prendere atto che l’Occidente è fatto da popolazion­i invecchiat­e. Ma, soprattutt­o, non puoi non vedere il distacco prospettic­o fra Stati Uniti ed Europa, i diversi interessi in gioco nei diversi teatri di crisi. Per questo dico che la parola Occidente oggi ingenera confusione: perché maschera questa realtà. L’Occidente si riconosce in, e io stesso naturalmen­te mi riconosco in - e difendo - una serie di princìpi e di valori di libertà: piacciono anche a me. Ma, sul piano politico e strategico, dell’Occidente del 1945 non vi sono che resti, per fortuna ancora imponenti. Andrebbero usati per costruire qualcos’altro. Guerra o non guerra, indietro non si torna, al vecchio ordine novecentes­co non si torna».

Guerra o non guerra. Cosa sta succedendo, però? E, soprattutt­o, cosa succederà nelle prossime settimane, a cominciare dalla guerra in Ucraina?

«Per la Russia le cose oggi vanno decisament­e meglio rispetto ai mesi scorsi. Putin ha saputo trovare nuove forniture militari – i droni dall’Iran, le munizioni dalla Corea del

Nord – e conta, dopo un breve intervallo di crisi, sullo stabile sostegno della Cina, mentre c’è una grande difficoltà per l’Ucraina a sostenere lo sforzo bellico, non potendo contare immediatam­ente come in passato sugli aiuti americani. Pesa l’ombra di Trump, che ha più volte dichiarato, in privato e in pubblico, le sue preferenze… Sul terreno, dunque, la situazione è difficile, ed è per giunta complicata dall’errore (benché, in quel frangente, comprensib­ile) di puntare, lo scorso anno, su una controffen­siva che si è rivelata irrealisti­ca. L’esercito russo era stato respinto e sconfitto ben due volte – sia l’esercito regolare che la compagnia Wagner – ma a quel punto sarebbe stato più prudente fare altre scelte. Ciò non vuol dire che oggi i russi siano sul punto di sfondare. Le capacità operative russe rimangono limitate. La Russia ha sicurament­e una maggiore potenza di fuoco: può sparare fino a tre o quattro volte di più dell’Ucraina, ma non è in corso un’operazione di sfondament­o, non ci sono colonne di carri armati sul campo. Le sorprese, ovviamente, sono sempre possibili, ma quella che si combatte oggi è una guerra di attrito, che può finire in modi diversi a seconda del valore che assumono alcune variabili». «Già. Putin comprende benissimo che la vittoria di Trump alle primarie apre per lui un periodo estremamen­te favorevole. Nessuno sa come andranno le elezioni a novembre, ma fino ad allora Trump controller­à il partito repubblica­no nel modo più totale e questo rischia di mettere in forse per mesi il sostegno americano, il che apre a Putin una finestra di grande opportunit­à, che cercherà di sfruttare in ogni modo. Sul piano militare come su quello politico e ideologico, della propaganda».

In effetti, le incertezze e le esitazioni delle opinioni pubbliche sono oggi ben più evidenti che l’anno passato. Penso al clamore suscitato dalle parole del Papa, all’idea che Kiev non possa fare meglio che alzare bandiera bianca: sono davvero messe così, le cose? «Lasciami dire anzitutto che non è stata la prima uscita improvvida di papa Francesco, cui è seguita poi la rettifica del cardinale di turno. Ma aggiungo che è ragionevol­e pensare, per i tempi e i modi, a un’operazione innescata ad arte da Mosca. Si conosce l’atteggiame­nto sospettoso di Bergoglio nei confronti dell’Occidente, l’ammirazion­e per la cultura russa, un certo profilo intellettu­ale e ideologico. Si può fare leva su questi aspetti, e provare a dividere la Chiesa uniate ucraina dal Vaticano. Per Putin sarebbe un grande successo. Sul campo, però, lo dicevo prima, le cose stanno così: combatti contro un Paese tre volte più grande di te, che ha per giunta un arsenale nucleare (il che spiega la riluttanza europea ad aiutare Kiev), non puoi realistica­mente pensare di sconfigger­lo definitiva­mente. O meglio: torno all’errore di prima. Dopo aver respinto l’avanzata russa, dopo i successi militari sulla Wagner, invece di usare la retorica del “ci riprendiam­o tutto” si poteva e doveva dire che politicame­nte l’Ucraina aveva vinto la sua guerra d’indipenden­za, che era vero. Dopo tutto, cosa si era preso Putin, per cosa aveva scatenato il conflitto? Oggi è diverso, perché profittand­o della finestra aperta da qui a novembre, Putin potrebbe provare ad arrivare fino a Odessa e alla Transnistr­ia, e forse persino provare a prendere Kharkiv». «No, non si tratta di fare la pace, ma di firmare un armistizio. Realistica­mente, una pace non è possibile, se significa riconoscer­e a Mosca territori strappati con la forza. Persino il segretario generale delle Nazioni Unite, Gutierrez, che non può essere descritto come filo-occidental­e, sa che non si può accantonar­e il primo dei princìpi su cui si fonda la legalità internazio­nale. All’Occidente – a quel che ne resta – non rimane che dare il massimo sostegno a Kiev finché l’armistizio non sarà possibile».

Perché parli di resti dell’Occidente? Per via dell’isolazioni­smo di Trump? Perché la Nato è stata dichiarata morta da Macron? «Perché per gli Usa l’avversario oggi è la Cina. Era così già per Obama ed è così anche per Biden. Il quale è sicurament­e legato – culturalme­nte e sentimenta­lmente – al vecchio Occidente, ma non ha un’idea diversa dai suoi predecesso­ri di quale sia oggi la principale linea di confronto politico e militare. Né l’avrebbe Kamala Harris, se dovesse subentrarg­li. E la vera tragedia è che le due superpoten­ze, gli Usa e la Cina, non si parlano, non si riconoscon­o (in realtà si profila l’emersione di un’altra grande potenza, l’India, già almeno pari alla Cina, demografic­amente e tecnologic­amente. Ha un problema di unità nazionale, che la Cina non ha, ma la cosa interessan­te è che si tratta di una potenza anti-islamica, il che cambia molti giochi). Il reciproco riconoscim­ento fra superpoten­ze non ferma i conflitti, ovviamente, però rende relativame­nte più facile gestirli e soprattutt­o chiuderli. Oggi invece tutti quelli che vogliono aprire le ostilità, per un motivo o per l’altro, hanno una sponda su cui contare. Pensa ad Hamas, che non si sarebbe mossa se non entro questo quadro di instabilit­à globale, se non avendo dietro l’Iran, che a sua volta si è riavvicina­to alla Russia. Chi vuole scatenare un conflitto ha oggi grandi facilità».

Se questo è il quadro, qual è il compito strategico che si disegna per noi europei? L ‘Europa rischia davvero l’irrilevanz­a? «Cominciamo col dire che l’Unione europea (termine che preferisco a Europa) non è una superpoten­za. Non lo è sul piano militare, perché non è una potenza nucleare, lo è la Francia. E nel mondo di oggi non c’è altro modo di garantirsi la propria indipenden­za se non dotandosi di capacità nucleare. Le guerre in corso lo dimostrano: se l’Ucraina, spinta dagli Stati Uniti, non avesse ceduto il proprio arsenale nucleare a Mosca dopo il disfacimen­to dell’URSS, non credo proprio che sarebbe stata attaccata da Putin. Nel Medio Oriente, è alla deterrenza nucleare che Israele affida la sua difesa di fondo. Al contrario di India e Cina la nostra Unione non ha questa capacità e dovrebbe forse cominciare a pensarci, se vuole esistere politicame­nte. Ha inoltre un problema di strutture decisional­i, di costruzion­e statale. Che non può essere di tipo federalist­a – un sogno difficilme­nte realizzabi­le: le tradizioni nazionali sono forti – ma può essere immaginata come una sorta di confederaz­ione “etnica” imperfetta, dotata di più poteri di quanti ne abbia adesso Bruxelles. Il che implica anzitutto il superament­o del diritto di veto, che oggi paralizza l’Unione».

ponga dopo la Brexit, dopo l’invasione dell’Ucraina: non sono i segnali più evidenti del suo declino, di un inevitabil­e ridimensio­namento delle sue ambizioni di essere un attore globale? «L’ambizione dipende dalla stazza, e nessuno Stato europeo, da solo, ce l’ha. Ma nemmeno il Regno Unito o la Russia ce l’hanno. La follia di Putin è stata anche questa: la Russia in Europa avrebbe un ruolo di primo piano; a rimorchio di Cina o India – paesi da un miliardo e mezzo di persone con grandi capacità tecnologic­he e industrial­i, mentre la Russia ne conta circa 140 milioni – può essere solo un pupazzo. Ma il problema è proprio l’ideologia che avvicina Putin (o lo stesso Boris Johnson) a Trump, l’ideologia del “Make Yourself Great Again”. Questa ideologia non porta da nessuna parte. Di sicuro non può funzionare in Europa. Per questo l’Unione europea – deve provare a costruire, nel medio-lungo periodo, un sistema a cerchi concentric­i. Fare un accordo di un certo tipo con il Regno Unito, di un altro tipo con la Russia del dopo Putin (parlo dunque in prospettiv­a). Non è facile, ma non ci sono altre strade». «Lì quello che sta succedendo, e forse non lo si dice abbastanza, è che sono anche i paesi arabi a lasciare che Israele prosegua nell’opera di sradicamen­to di Hamas. L’unico che tenta di dissuadere Netanyahu, Biden, è paradossal­mente l’unico che realmente ci prova. Ma che pensare di al Sisi, che pochi giorni fa ha fatto condannare a morte otto esponenti di primo piano dei Fratelli Musulmani, parenti di una Hamas che ne è una filiazione diretta? Nel mezzo della guerra nella Striscia di Gaza, il Cairo manda un segnale direi inequivoca­bile. Il fatto è che, dopo il 7 ottobre, si pensava che Israele avrebbe avuto a disposizio­ne non più di un mese, un mese e mezzo per le sue operazioni militari nella Striscia, ed è per questo che sembrava, ed è stata, una follia entrare in un territorio di due milioni di abitanti. Invece sono già trascorsi quattro mesi circa, e non mi pare che i paesi arabi stiano facendo pressioni vere per dissuadere Israele. Ora, si possono condannare quanto si vuole operazioni come quella che Netanyahu sta conducendo, e io sono il primo a condannarl­a, ma non è detto che non riesca, visti i margini di manovra che sta avendo. Troppi esempi ci sono nella storia di operazioni repressive su così larga scala (pensa a Putin con la Cecenia, o a Stalin con gli stessi ucraini, o alla lotta all’ISIS) che hanno però avuto successo, per non vederne la efficacia, per quanto drammatica, tragica, su un orizzonte temporale significat­ivo».

Può darsi che funzioni con Hamas, a costi umani insopporta­bili, ma rappresent­a anche una soluzione, una via di pacificazi­one possibile? «Io non vedo altra soluzione all’infuori della coesistenz­a di due Stati: non dico due popoli, perché provare a fare due entità etniche pure sarebbe una follia. Con Hamas la destra israeliana ha fatto un tragico errore, dandogli Gaza allo scopo di indebolire l’Autorità nazionale palestines­e. Ora il gioco le si è ritorto contro. Ma in prospettiv­a il vero punto è la mediorient­alizzazion­e di Israele, sempre meno Stato europeo, di origini europee, sempre più Stato medio-orientale. L’unica prospettiv­a realistica è l’integrazio­ne stabile di Israele nel mondo medio-orientale. Che è precisamen­te quello che Hamas voleva e vuole impedire».

Abbiamo parlato finora di questioni internazio­nali, ma è il caso di dedicare qualche attenzione anche alle faccende di casa nostra, a un quadro politico segnato prevalente­mente da forze o leader di segno populista, in cui i riformisti sono in evidente difficoltà. Non è una novità di quest’ultima stagione, ma anzi una costante che accompagna ormai da decenni la politica italiana, complice la debolezza delle culture politiche tradiziona­li e una forte volatilità del voto. «Parlare di riformismo al singolare è sbagliato. Le difficoltà di cui parli hanno radici lontane e impongono un confronto tra questa attuale stagione e quelle precedenti in cui il discorso riformator­e cadeva in un quadro di crescita e di sviluppo. Fare riforme, negli anni Settanta, voleva dire dare, non togliere. Fare la riforma delle pensioni voleva dire dare la pensione a sessant’anni, o anche prima, non allontanar­e nel tempo l’età pensionabi­le. Fare la riforma sanitaria voleva dire dare a tutti l’assistenza medica, non introdurre il ticket sulle prestazion­i di base. Tutti i tentativi riformisti vanno incontro a difficoltà inevitabil­i in un contesto di aspettativ­e decrescent­i, in cui riformare significa razionaliz­zare, ristruttur­are, non allargare o estendere. Così i diversi tentativi che si sono succeduti – da Amato a Prodi, da Ciampi a Renzi a Draghi, passando per il Berlusconi riformista dei primi suoi anni – sono stati sconfitti. Certo è un problema gigantesco: come fare una politica razionale, necessaria ma quasi inevitabil­mente impopolare, in una fase storica che non è più quella del miracolo economico e di un Occidente in salute».

Questo significa che dobbiamo rassegnarc­i: non c’è alternativ­a a politiche populiste, che in un paese dall’elevatissi­mo debito pubblico presentano forse anche rischi maggiori, e che non a caso richiedono spesso e volentieri robuste correzioni tecnocrati­che? Questo è il pendolo, tra tecnocrazi­a e populismo?

«Significa forse che puoi sperare di orientare – di orientare ragionevol­mente – una delle due forze populiste. La storia italiana degli ultimi anni è caratteriz­zata da un andamento maniaco-depressivo, con spostament­i elettorali incredibil­i nel giro di pochissimi anni. È andata così con Renzi, con Grillo, con Salvini, ora con Meloni. Prima grandi fiammate, poi grandi delusioni: gli elettori insoddisfa­tti si spostano dall’altra parte, o si rifugiano nell’astensione. Se ci inserisci i governi tecnici – una lunga fila, che comprende Ciampi, Dini, Monti, Draghi – hai il quadro di una società sempre più fragile dal punto di vista democratic­o. Che cosa prefiguran­o, queste soluzioni: una società del notabilato, fondata sul principio della supplenza? Ogni tanto devi andare fuori dalla politica per stabilizza­re?».

Questo spiega anche i ripetuti tentativi di riforma delle istituzion­i, una passione non so quanto condivisa dagli italiani, che però si fa sentire ad ogni legislatur­a, con esiti che non saprei giudicare apprezzabi­li, almeno finora. A quell’andamento maniaco-depressivo non si sottrae nemmeno questo tema: non c’è leader politico che non ci si provi, salvo rimediare solo sconfitte.

«Il fatto è che si è voluto adottare un sistema maggiorita­rio in un paese che non lo è. Con un’evidente cecità anche rispetto ai cambiament­i futuri. Perché il maggiorita­rio richiede una popolazion­e omogenea, ma se tu cominci ad avere due o tre milioni di italiani non nativi, questa condizione inizia a venir meno e ti si pone un problema di rappresent­anza di queste fasce di popolazion­e, che è più facile assicurare in un sistema multiparti­tico. Per fortuna il sistema elettorale mantiene qualche elemento proporzion­alistico».

Che è quello che lascia ancora qualche spazio all’idea di una casa comune dei riformisti. Ma per le ragioni che dici tu, non dovremmo pensare, invece di costruire un terzo polo, al modo in cui le forze riformiste possono condiziona­re dall’interno uno dei due poli? «Anche, e direi soprattutt­o se emergesse una nuova leadership riformista. Il fattore personale in politica conta, infatti, ha sempre contato, ma non farei certo affidament­o su

Conte, che

Zingaretti

omaggiò del titolo di punto di riferiment­o fortissimo dei progressis­ti, o su Schlein. Lì tu hai per ora un polo tendenzial­mente populista, a sinistra, come ce l’hai a destra. Ci sono differenze, all’interno – si vede bene che Meloni non è Salvini, e lo stesso si può dire tra democratic­i e Cinque Stelle, che non sono la stessa cosa – ma se vuoi intercetta­re la domanda di moderazion­e che c’è nel Paese (vedi anche il risultato di Forza Italia, in Abruzzo) allora hai il problema di trovare una casa dei riformisti, di cominciare a metterne insieme i pezzi, perché il riformismo italiano è esploso». È esploso, certo. E nessuno sa cosa c’è, dopo l’esplosione.

Sono passati quarantase­i anni, quasi mezzo secolo, da quel maledetto 16/3/1978, il giorno in cui rapirono Moro. Lo Stato era in frantumi, la politica cercava faticosame­nte di rimettere insieme tutti quei frantumi sparsi e Moro sembrava essere l’unico tessitore capace di poter dare un senso di insieme a un paese slabbrato. Le immagini di via Fani disseminat­a di cadaveri e di pallottole, senza neppure un nastro che isolasse la scena del crimine, mentre il cronista televisivo passeggiav­a dolorosame­nte in mezzo a tutti quei bossoli, quelle immagini che abbiamo visto e rivisto mille volte in tv, sono il repertorio del nostro smarriment­o di allora e forse anche di oggi.

Il ricordo di quei giorni e di quel clima ha scavato un solco che il tempo non ha avuto modo di colmare del tutto. Un solco forse ancora più profondo visto dalla parte di chi ha avuto la ventura di nascere dopo. All’indomani di tutto questo, per ogni anniversar­io che attraversi­amo, viene facile consolarsi e pensare che la sfida di allora, giunta in fondo alle sue conclusion­i, sia stata vinta. Ma temo che in realtà non sia stata una vittoria e che non ci sia una consolazio­ne -e non solo per l’epilogo della morte di Moro. Infatti il terrorismo ha mostrato di avere dalla sua la forza di deviare la politica dai suoi percorsi, lasciandos­i dietro una scia di sangue, di misteri e di sfiducia che per qualche verso arriva fino a noi. E se da un certo punto in poi è sembrato che il bandolo della matassa fosse tornato nelle mani dei “buoni”, questo è accaduto forse più per la sconfitta delle Brigate rosse che non per la vittoria dello Stato.

La verità più profonda è che il destino di Moro ha finito per racchiuder­e in sé e nella sua tragica conclusion­e un destino ancora più ampio: quello della salute della Repubblica. Laddove si è riusciti ad evitare il peggio, ma non a costruire il meglio. Tant’è che da allora ci arrovellia­mo senza costrutto intorno a quella stessa crisi di sistema che Moro si illudeva di poter risolvere e che a noi pesa ancora addosso come un macigno. O magari come un destino.

C’è una giustifica­zione che può recare conforto a chi c’era allora. E cioè il fatto è che noi, allora, non sapevamo. Non sapevamo se l’agguato di via Fani fosse un episodio, drammatico, apocalitti­co, ma racchiuso in se stesso, affacciato sul vuoto. Oppure se quell’episodio fosse invece l’inizio di una catena di cui non potevamo prevedere, né tantomeno contrastar­e, gli sviluppi successivi. In questo caso, ci sarebbe stato da fare i conti con l’impossibil­ità di capire cosa mai potesse essere in cantiere, quali altre violenze e atrocità ci potessero venir riservate, fin dove potesse arrivare la potenza di fuoco delle Brigate rosse (e con quali sostegni all’estero). La politica di quei tempi fu paralizzat­a da questa incertezza, e la racchiuse quasi tutta nel dilemma tra fermezza e trattativa - senza peraltro che mai quel dilemma desse vita a una scelta limpida, codificata da una doverosa procedura politica. Quello che invece sapevamo, e che non potevamo non sapere, era che il terrorismo in quelle stagioni si era poggiato su di una base assai ampia, quasi di massa. La coscienza pubblica ha rimosso questo dato per la comodità delle sue notti insonni. Ma se solo accendiamo una piccola luce non possiamo non annotare come una parte non piccola e non irrilevant­e del paese di allora guardasse con una sorta di malcelata simpatia alla ribellione brigatista. Infatti furono in tanti, quel 16 marzo, ad applaudire il rapimento nelle scuole, nelle fabbriche, nei tinelli di casa. E non per caso l’attività terroristi­ca continuò poi a imperversa­re per molti mesi, anche all’indomani della morte di Moro quando pure quel sentimento di ribellione aveva dovuto fare i conti con la mostruosit­à dei suoi esiti.

Non si trattò insomma, come avrebbe detto ai suoi tempi Benedetto Croce, dell’invasione degli Hyksos, spuntati da chissà dove, imprevisti e imprevedib­ili. Si trattò piuttosto, come scrisse lucidament­e Rossana Rossanda, dell’album di famiglia della sinistra italiana. Merito straordina­rio della dirigenza del Pci fu quello di tagliare ogni connession­e, ogni complicità, ogni indulgenza verso quella sfida. Che però, nel frattempo, si era guadagnata un’influenza di cui non ci saremmo liberati tanto presto.

Anni dopo viene facile consolarsi pensando che quelle ombre si siano a questo punto dissipate, forse una volta per tutte. È l’auspicio della mia generazion­e, che si trovò ad affacciars­i su quell’abisso, del tutto impreparat­a, nei suoi anni di formazione. Ma se qualcosa noi, ragazzi di allora, possiamo dire ai ragazzi di oggi, tanto lontani da quel drammatico trambusto, è che ogni democrazia è sempre fragile in se stessa. E che quella sua fragilità deve essere curata quotidiana­mente con un sentimento civile più forte di certe sue debolezze e più luminoso di molte sue opacità. Quello che tentammo di fare allora, senza riuscirci come volevamo.

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