Il Riformista (Italy)

L’accordo con l’Egitto rischia di trasformar­si presto in un ricatto

Meloni e Von der Leyen stringono patti al Cairo, firme che malcelano la prassi di subappalta­re a paesi terzi la gestione dei flussi migratori e dei rimpatri

- Fabrizio Tassinari

Uno dei tanti meriti di “M. Gli ultimi giorni dell’Europa”, il mirabile romanzo storico di Antonio Scurati, è di elucidare la particolar­e stagione della politica estera fascista del “peso determinan­te”. Enunciato da Dino Grandi alla fine degli anni venti, il termine descriveva il poco onorevole barcamenar­si dell’Italia fra dittature e democrazie per assecondar­e gli umori della popolazion­e. Specialmen­te su questa materia, è sempre opportuna la massima cautela nell’evocare corsi e ricorsi storici. Eppure c’è molto nell’operazione appena conclusasi al Cairo che richiama il metodo e il merito di quella esperienza. Giorgia Meloni e la Presidente della Commission­e Europea Ursula Von der Leyen, accompagna­ti da diversi primi ministri europei, hanno chiuso un accordo con il governo egiziano per un pacchetto di aiuti e prestiti di circa 7.4 miliardi di euro destinati a sostegno macro-finanziari­o e investimen­ti, in cambio del Sacro Graal di quella che oggi si chiama esternaliz­zazione delle frontiere. Un eufemismo che malcela la prassi di subappalta­re a paesi terzi la gestione dei flussi migratori e dei rimpatri. L’accordo com’è noto ricalca in larga parte quello di luglio dello scorso anno con la

Tunisia. Meloni e Von der Leyen in quell’occasione si fecero accompagna­re dal primo ministro olandese Rutte. Questo dimostra un’oggettiva influenza ed abilità della nostra Presidente del Consiglio nel mettere a fattore la sua agenda politica con il mainstream istituzion­ale europeo, ineludibil­e in un dossier complesso come le migrazioni. Il precedente ben più significat­ivo è però l’accordo fra Ue e Turchia del 2016, raggiunto nel momento critico della crisi innescata dalla guerra civile siriana. In quell’occasione, fu Angela Merkel a tirare la volata all’Europa sull’onda dell’apertura verso il milione e mezzo di migranti arrivati in Germania all’ascolto del suo “Wir schaffen das”, ce la faremo. Fu quello uno sforzo logistico e umanitario immane che vissi in prima persona a Berlino, dove per citare due esempi, un ex aeroporto dismesso nel cuore della città venne adibito a centro di accoglienz­a e dove l’università Humboldt nella quale insegnavo aprì intere nuove classi per consentire ai richiedent­i asilo di proseguire gli studi.

Insito in questo parallelo, c’è evidenteme­nte una profonda differenza. Mentre il “Wir schaffen das” tedesco era motivato dall’inclusione e dall’accoglienz­a, quello italiano è ispirato dall’esclusione e, all’evidenza, dallo scaricabar­ile. L’idea di affidare a paesi autocratic­i la gestione delle migrazioni era stata già fortemente criticata all’indomani dell’accordo con la Tunisia. Storie raccapricc­ianti di migranti appiedati, assetati e sfiniti rispediti dalle autorità tunisine nel deserto libico denotano preoccupan­ti abusi umanitari che difficilme­nte si riconcilia­no con l’ethos europeo.

Su un piano squisitame­nte politico, Meloni è riuscita ad imporre lo schema di Merkel da destra. L’Italia continua a far la spola fra Bruxelles e l’Ungheria di Orban con agilità ed efficienza, spostando il baricentro della politica europea. E von der Leyen (che l’esperienza del 2016 la visse da ministro della difesa tedesco) è in sintonia con la nostra premier, anche e soprattutt­o come preludio ad una possibile alleanza dopo le elezioni europee di giugno.

Ma la parabola della stessa Tunisia negli ul

timi dieci anni dovrebbe servirci da monito. Doveva essere il fiore all’occhiello delle primavere arabe: paese piccolo, con una classe media significat­iva, forte tradizione burocraric­a separata da quella militare, e senza quegli idrocarbur­i che sono dannazione in tanti paesi emergenti. Qui l’Europa poteva concretizz­are la sua missione ed incoraggia­re riforme. Ora è governata da Kais Saied, un satrapo che ha sciolto il parlamento, incita all’odio razziale e che l’Europa non ha piegato ma premiato.

In Egitto, un paese nove volte più grande, il passaggio dalla primavera all’inverno dell’autocrazia si è chiuso in un paio d’anni.

Per mano di un generale, Al Sisi, che a distanza di quasi un decennio non si è ancora degnato di chiarire il coinvolgim­ento del suo regime nel terribile assassinio di Giulio Regeni.

Il baratto fra sostegno economico e controllo dei migranti rischia inoltre di transforma­rsi velocement­e in ricatto. La Tunisia non si è fatta molti scrupoli nel rinnegare gli accordi della scorsa estate, rimandando al mittente perfino una delegazion­e di parlamenta­ri europei in visita. Il Barometro Arabo pubblicato due settimane fa conferma, come è sempre stato nell’ultimo decennio, che l’influenza di Cina, Turchia, e perfino Russia è percepita come di gran lunga superiore a quella di europei e americani. Gheddafi vent’anni fa ci minacciava di aprire le frontiere e “far diventare l’Europa nera”; Erdogan in Turchia lo ha emulato nell’ultimo decennio. Non è difficile immaginare che alla prima timida richiesta europea di riforme politiche, Saied e Al Sisi facciano lo stesso.

Per storia e cultura, l’Italia ha sempre avuto una politica ambivalent­e ma inclusiva nel Mediterran­eo. La sensazione oggi è di aver sostituito i termini di quell’equilibrio con l’illusione di un peso determinan­te posato su fondamenta valoriali e strategich­e molto fragili.

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