Suicidi in carcere, penalisti in piazza «La politica assuma le sue responsabilità»
Il monito del presidente Petrelli: «Uno Stato civile non può non assumersi la responsabilità della vita dei detenuti». L’allarme del Partito Radicale
“La politica deve assumersi la responsabilità di questa crisi: uno Stato civile non può non assumersi la responsabilità della vita dei detenuti”, ha ricordato il presidente dell’Unione delle Camere penali, l’avvocato romano Francesco Petrelli, aprendo ieri a Roma la manifestazione dal titolo “Non c’è più tempo” per denunciare l’emergenza delle carceri italiane. L’iniziativa è stata accompagnata da una giornata di astensione dalle udienze. “Non c’è più tempo per il numero e la frequenza dei suicidi, uno ogni tre giorni, per il sovraffollamento, che continua ad aumentare andando verso la soglia che ha fatto condannare l’Italia dalla Cedu”, ha sottolineato Petrelli, indicando che ogni mese “ci sono 400-500 ingressi”. La piaga dei suicidi in carcere, già 26 dall’inizio dell’anno, è del tutto dimenticata dalla maggioranza di governo (ieri alla manifestazione era presente solo il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin).
Il Partito Radicale da almeno due anni denuncia come la malattia psichiatrica tra i detenuti sia divenuta la più grave criticità, che assieme al sovraffollamento si è trasformata in arma a orologeria, considerata la recente circolare del Dap che ha chiuso i detenuti in cella, eliminando ogni possibilità per loro di trascorrere la giornata nei corridoi delle sezioni. E ciò anche ovviando in termini per lo più pratici ai mai superati limiti dei 9 mq della nota sentenza Torreggiani che nel 2013 condannava l’Italia a risarcire i detenuti per violazione dell’articolo 3 Cedu per i trattamenti inumani e degradanti di una detenzione in sovraffollamento. “Si può dire che in tema di sovraffollamento siamo corsi indietro rispetto a questa pronuncia”, ha affermato Simona Giannetti, avvocata penalista di Milano e consigliere generale del Partito Radicale, che nell’ultimo anno ha visitato le celle di Opera e San Vittore. “In tutte le occasioni abbiamo denunciato su Radio Radicale la presenza della terza branda in ogni cella, con l’impossibilità dei detenuti di deambularvi”, ha aggiunto Giannetti. Ed è di questa settimana il comunicato del Partito Radicale che ha definito “strage di Stato” le morti in carcere. “II sovraffollamento strutturale, i malati psichiatrici e non, ristretti e non curati adeguatamente, il carcere preventivo, gli ergastoli bianchi, i tanti troppi suicidi, i pestaggi, come quello di Foggia, sono la cifra della strage di diritto e di vite umane che si consuma nelle carceri italiane”, si legge nella nota del Partito Radicale.
Sul punto è intervenuto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ribadendo la necessità di “interventi urgenti” e richiamando l’attenzione delle istituzioni affinché “non si sentano estranee a quel mondo”. Nell’ordine delle urgenze, Mattarella ha ribadito la priorità alle criticità del sovraffollamento e dell’emergenza sanitaria. La Lombardia è in cima alle Regioni con il maggior sovraffollamento con il 140% dei detenuti, preceduta solo dalla Puglia che fa da capolista con il 150%. “Governo, ministro della Giustizia, Parlamento non possano non tenere in conto che servono misure urgenti e di coraggio politico, serve un indulto, serve dare seguito alle richieste di misure alternative e non mandare in carcere chi ha pene prossime all’anno e mezzo da scontare, serve diffondere in modo effettivo e non solo nei convegni la pratica di non abusare della custodia cautelare in carcere”, hanno sottolineato i penalisti che sono intervenuti ieri alla manifestazione. Il risultato di anni di politica carcerocentrica, al fianco della carenza di posti nelle Rems, ha fatto diventare il carcere “una discarica sociale”. A San Vittore l’80% della popolazione detenuta è caratterizzata da disagio psichiatrico, con notevole e non dovuto aggravio delle condizioni di afflizione della detenzione nel suo complesso. Senza dimenticare, poi, le difficoltà della polizia penitenziaria, con tre agenti morti per suicidio dall’inizio dell’anno. Sul fronte riforma della giustizia, la deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi ha chiesto invece ieri un segnale sulla separazione delle carriere. “Tanto rumore per nulla: dopo gli annunci un nulla di fatto. Ora pare che il governo assuma una sua iniziativa e quindi è di nuovo tutto fermo nonostante ci siano varie proposte parlamentari incardinate da mesi. Sembra il gioco dell’oca. Non servono passi indietro, ma passi avanti per portare a compimento una riforma che il Paese attende da troppi anni”, ha dichiarato Boschi.
Inumeri a volte sembrano da soli aprire un varco nel futuro. Se nella pubblica amministrazione è pieno autunno anagrafico, perché l’età media è di 50,7 anni (molto più alta, in realtà, se si escludono le forze dell’ordine), il fatto che entro 5 anni un dipendente su 5 andrà in pensione fa pensare che stia per iniziare la primavera. Sono in vista oltre 700mila nuovi ingressi, grazie a una quota già prevista di 60mila assunzioni e soprattutto al turn over, proprio quel meccanismo che nel 2008 venne bloccato da un giorno all’altro. E di questo esercito di nuovi assunti, il 43% dovrà essere ad alta specializzazione. Da qui anche il pronostico di una forte concorrenza con il settore privato. Sono i dati di due distinte indagini, Excelsior-Unioncamere e ForumPA.
Oltre 15 anni fa, sotto il mantello della spending review, l’Italia venne ingessata da un programma di tagli lineari che avviava la grama stagione della “PA-bancomat”. A farne le spese furono il reclutamento (blocco del turn over), gli stipendi dei dipendenti e il sostegno al merito (blocco della contrattazione), la formazione e la comunicazione. Ne è derivata un’amministrazione indebolita e invecchiata, che nell’ultimo decennio ha ingoiato le sue stesse riforme: performance, trasparenza e open government, unite ai vari switch off digitali, hanno prodotto ben pochi cambiamenti percepiti dal cittadino. Non a caso, il ministro della PA Paolo Zangrillo, convinto che lo Stato debba “ripartire dalle persone”, punta su un forte recupero di immagine, “rendendo attrattiva la nostra organizzazione, abbandonando la narrazione del posto fisso e garantendo formazione e crescita professionale a tutti coloro che guardano alla PA come opportunità di impiego”.
Siamo ad un bivio. Tocca chiedersi seriamente: 700mila nuovi funzionari pubblici per andare dove? Per fare cosa? Per superare la ‘fuga dalla firma’ o al contrario per rinforzare la cultura delle procedure? Per applicare le norme o per erogare servizi, dialogando e affiancando le persone? Per parlare con gli uffici o per parlare con le macchine dell’Intelligenza Artificiale, al fine di migliorare le prestazioni a cittadini e imprese? Per imparare la burocrazia o per imparare la trasparenza e la partecipazione civica? Per farsi valutare dal capo o per farsi valutare dagli utenti? Per accumulare carte o per ridurre inefficienze e sprechi che costano al Paese 180 miliardi all’anno (stima Cgia di Mestre)?
Sono domande cruciali, in un apparato che ancora oggi si crogiola in un formalismo che mette il cuore e la penna in pace ma spesso non produce né risultato né valore pubblico. Un sistema dotato di anticorpi contro ogni novità, che si accanisce nella formazione obbligatoria su privacy e codice dei contratti e ignora le sempre più evidenti necessità di competenze da un lato trasversali – le soft skills relazionali e finalizzate al problem solving – dall’altro mirate alla capacità di padroneggiare le nuove tecnologie. Insomma, ci servono legioni di giuristi, biologi, informatici e ingegneri edili o figure proiettate nella trasformazione digitale per rinnovare processi e prodotti? Ad esempio, manager dell’IA e del Metaverso che sappiano snellire la produzione di documenti per puntare sulla qualità dei servizi, in una nuova e virtuosa alleanza con i cittadini italiani.
In un convegno di qualche anno fa, Raffaele Cantone, magistrato allora presidente dell’Anticorruzione, zittì la sala con una secca affermazione: “Noi non dobbiamo fare ciò che la legge ci dice di fare”. Brusio di sorpresa, ma arrivò la conclusione: “Dobbiamo fare ciò che la legge non ci vieta, per ottenere risultati di interesse generale”. Sarebbe utile selezionare 700mila agenti di questa appassionante missione pubblica.
Il senato accademico piemontese cede alle pressioni delle squadracce che intimano a quel consesso di non partecipare a un bando del Ministero degli Esteri che compromette l’Italia in una iniziativa di scambio culturale infettata dalla presenza israelita. Attenzione al negazionismo di secondo grado
All’inizio degli anni ‘30 del secolo scorso più di mille docenti universitari prestavano giuramento al regime fascista: altrettanti, oggi, sottoscrivono appelli per il boicottaggio della letteratura scientifica e delle università israeliane, mentre un senato accademico piemontese cede - per rispetto del “confronto” e del “dialogo” - alle pressioni delle squadracce che intimano a quel consesso di non partecipare a un bando del Ministero degli Esteri che compromette l’Italia in una iniziativa di scambio culturale infettata dalla presenza israelita. È pateticamente prevedibile che qualcuno intenderà rinnegare il rapporto di raccapricciante continuità tra i fatti di oggi e quelli riguardanti i mille e più che un secolo addietro assicurarono fedeltà al regime che di lì a poco avrebbe scritto le leggi razziali. Ma è la negatoria che si esercita nella solita distinzione contraffattoria che fa mostra di insistere solo sulle “politiche di Israele”, e pace se l’opposizione a tali politiche si realizza e trionfa nella pratica di impedire agli scrittori e ai giornalisti ebrei di partecipare a dibattiti e conferenze o, appunto, nelle altre iniziative di boicottaggio organizzate a firma dell’accademia combattente, le versioni light e sussiegose della devastazione dei negozi e delle catene della grande distribuzione complici dei crimini perpetrati dall’Entità sionista. E varrebbe la pena di esaminare con attenzione la natura e la scaturigine di questo negazionismo di secondo grado, che apparirebbe quasi ingenuo, se non fosse spesso maculato di malafede, nel reiterare senza perplessità la sentenza messa in bocca al personaggio di quel racconto di Fred Uhlman (L’amico ritrovato), il virgulto nazista che tranquillizzava il proprio compagno di scuola spiegandogli che il Reich avrebbe saputo fare le dovute distinzioni “tra gli ebrei di valore e gli indesiderabili”. E questi ultimi, oggi, son tutti quelli che non si dichiarano appartenenti a una schiatta genocida, quelli che non rimproverano a Liliana Segre di fare poco contro il nuovo nazismo in Uzi e filatteri, quelli che non accettano di distribuire vignette con la svastica accomunata alla Stella di David, quelli che non si spellano le mani nell’applauso al segretario generale dell’Onu secondo cui il 7 ottobre non viene dal nulla. Esaminare con attenzione le fattezze e le cause di questo negazionismo trasfigurato significa smascherare un simulacro repubblicano, vale a dire che il “mai più” consacrato negli interdetti costituzionali e nelle retoriche delle celebrazioni della Memoria costituisce un presidio platealmente incapace di mordere la realtà delle cose, l’evoluire di identici pregiudizi in una girandola soltanto aggiornata di identiche mozioni discriminatorie: esemplarmente precipitate - e peggio per chi non lo capisce - nei documenti professorali che ieri omaggiavano il regime delle leggi razziali e oggi si rivoltano nel ripudio delle compromissioni da cui quello voleva difendere l’Italia. Con il risultato che, oggi, le normative e le proclamazioni profilattiche rivolte a proteggere il Paese dal riproporsi di quelle subdole interferenze costituiscono in realtà una specie di lasciapassare e un motivo, appunto, di negazionismo su base ordinamentale: il pregiudizio anti-ebraico e anti-israeliano che non c’è nei fatti perché è vietato nella legge, e, forse, nei propositi. E così quel pregiudizio scompare, è denegato, ne è rimossa l’effettività, non perché non c’è: ma perché non dovrebbe esserci. E, siccome è vietato, a quello che c’è bisogna dare un altro nome.