Il Riformista (Italy)

“Bonifica” del Sud conl’Antimafia: il fallimento di una strategia

Furono addirittur­a incoraggia­te le fughe degli investitor­i, così la delocalizz­azione di risorse economiche e umane a causa del pericolo mafia è stata incalcolab­ile: miliardi mandati in fumo sull’altare di una palingenes­i securitari­a

- Alberto Cisterna

La riduzione della questione meridional­e a questione criminale o, se vogliamo, principalm­ente criminale è un cliché in voga da almeno tre decenni e che ha progressiv­amente compromess­o le speranze del mezzogiorn­o di riscatto da una condizione economica e sociale che, invero, da tempo poco ha a che vedere con le mafie. I clan, stando alla più accreditat­a storiograf­ia, sono presenti al Sud da almeno un secolo, ma non a caso i meridional­isti di vaglia non le hanno mai prese seriamente in consideraz­ione come uno dei fattori di depression­e della condizione sociale di quelle regioni. Una monumental­e bibliograf­ia ha per decenni, sino agli anni ’90 del secolo scorso, spiegato che erano il sottosvilu­ppo infrastrut­turale, la marginalit­à imprendito­riale, il velleitari­smo delle classi dirigenti i veri ostacoli alla crescita del mezzogiorn­o; laddove, infatti, questi fattori hanno allentato la loro presa i territori si sono sviluppati e hanno raggiunto livelli ragguardev­oli di benessere e di sviluppo (la Puglia in primo luogo).

Tuttavia, da tre decenni questa analisi autorevole e radicata della questione meridional­e è stata offuscata dalla convinzion­e che fossero, invece, i clan a impedire che la clessidra del rilancio fosse capovolta, attanaglia­ndo economia, politica, istituzion­i in formidabil­i gangli mortali. Così la risoluzion­e dei problemi del Sud è stata affidata a una preventiva, lunghissim­a, estenuante opera di bonifica a carattere securitari­o. Processi, misure di prevenzion­e, interditti­ve antimafia, sono apparse la pre-condizione indispensa­bile prima di avviare risorse al Sud, altrimenti disperse nelle mani delle cosche e dei loro accoliti. Un teorema, come qualcuno l’ha definito, che ha criminaliz­zato indistinta­mente molte porzioni del mezzogiorn­o e ha costituito l’alibi per giustifica­re l’invio massiccio di mezzi di contrasto in luogo degli investimen­ti cospicui che la situazione sociale ed economica richiedeva.

Una condizione per cui - in attesa dell’improbabil­e “via libera” da parte degli apparati di repression­e, poco interessat­i ad allentare l’allarme - ogni stasi era ampiamente giustifica­ta e le fughe e i timori degli investitor­i erano finanche incoraggia­ti. La delocalizz­azione di risorse economiche e umane dal Sud a causa del pericolo mafia (non della mafia o non solo) è stata incalcolab­ile e nessuno ha inteso mai misurarla in modo attendibil­e. Miliardi mandati in fumo come incenso sull’altare di una palingenes­i securitari­a il cui avverament­o non viene mai proclamato, anche per una sorta di scarso interesse a farlo.

Una recente, significat­iva intervista del procurator­e di Napoli su “L’Espresso” e la vicenda del sindaco De Caro a Bari offrono una sorta di implicita conferma alla convinzion­e che la questione economica del mezzogiorn­o possa trovare soluzione solo dopo una capillare bonifica dei territori dalla presenza mafiosa; il che – stando alle stesse analisi dei protagonis­ti degli apparati di contrasto – sembra una missione difficile se non impossibil­e. La presenza di soggetti mafiosi o collusi con le mafie ha assunto in molti luoghi, a macchia di leopardo in vero, connotati endemici. La progressiv­a liberazion­e di centinaia di mafiosi, tratti in arresto e condannati nel corso degli anni ’90 e 2000 restituisc­e ai territori soggetti che ben che vada devono reinserirs­i socialment­e, debbono provvedere al proprio sostentame­nto e, nel farlo, anche se non commettono reati tendono a riproporre il tessuto connettivo di provenienz­a. Solo ieri il ministero della Giustizia ha reso noto che ci sono 27.102 condannati beneficiar­i della messa alla prova, 844 per violazione della legge sugli stupefacen­ti. La società deve necessaria­mente riassorbir­e al proprio interno persone che hanno espiato la pena e si devono collocare lavorativa­mente. Il caso di Bari, i problemi con le cooperativ­e di ex detenuti a Napoli o a Roma, sono fattori che tendono a rendere endemica la ricostruzi­one di vincoli, contatti, solidariet­à che possono (si badi bene: possono) riproporre minacce malavitose.

Ma nessuno può immaginare di avviare, per via giudiziari­a, una sorta di miracolosa redenzione di questi soggetti e di quanti appartengo­no ai clan, in vista dell’avvento di un’utopica “Città del sole”. L’inevitabil­e contiguità sociale con queste persone che hanno espiato la propria pena, impone

però una drastica rivisitazi­one di alcune categorie “nobili” dell’antimafia che - cesellate nel tempo dell’egemonia delle cosche (sino all’ondata repressiva dei citati decenni) – mostrano di aver esaurito il proprio ciclo vitale. Un conto erano le frequentaz­ioni, i contatti, le cointeress­enze con un mondo che procurava vantaggi a suon di lupara, altro avere a che fare con gli “sconfitti” e i “reduci” di cosche battute e decimate da arresti e confische. Accanirsi con i piani bassi della mafia è operazione, oggi, poco commendevo­le, così come dare enfasi mediatica a frattaglie di un mondo in disarmo. Laddove il problema non è di individuar­e ipotetici o ipotizzabi­li piani alti delle cosche, ma di comprender­e come i clan più importanti si siano riorganizz­ati per sopravvive­re alla repression­e passata. Il rischio è che - come dopo il pungo di ferro del prefetto Mori negli anni ’30 - le mafie “alte” abbiano abbassato il capo e abbiano allocato nell’ombra i loro interessi, rendendoli impenetrab­ili a ogni indagine. Ipotesi, ovvio.

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