Il Riformista (Italy)

Foggia prima di Bari la politica in Puglia si fa guerra con l’Antimafia

Il definitivo cambio di paradigma con numerosi Comuni sciolti per mafia e centinaia di interditti­ve che colpiscono in modo indiscrimi­nato il sistema delle imprese

- Pietro Paciello

Prima di Bari c’è stata Foggia. 144mila abitanti, nord della Puglia, quinta città del Sud continenta­le dopo Napoli, Bari, Reggio Calabria e Taranto. Città non banale che nel volgere di un paio di generazion­i arriva quasi a triplicare il numero di abitanti attraversa­ndo il convulso dopoguerra della ricostruzi­one edilizia e dell’inurbament­o selvaggio sino alla prima (e ultima) stagione di sviluppo industrial­e targata partecipaz­ioni statali negli anni settanta. Poi le sventatezz­e degli eighties e l’inizio di un trentennal­e declino nel decennio successivo. Città di ceto medio in lungo e in largo, in basso e in alto, un “corpaccion­e” di middle class, come avrebbe detto Giuseppe de Rita, di indole moderata, prima monarchica, poi democristi­ana (con punte di consenso del 48%), di centrodest­ra tendenza alleantina nel passaggio alla seconda repubblica e, infine, a geometria variabile, con alternanze di ceto politico equivalent­e e gattoparde­sco, sino ai nostri giorni. Secondo capoluogo di provincia in Italia che subisce l’onta dello scioglimen­to del Consiglio comunale per infiltrazi­oni mafiose ad agosto 2021. Un’era geologica fa. Sì, perché Foggia ha letteralme­nte scoperto di essere territorio di cosiddetta “quarta mafia” da poco meno di una decina di anni. Sino al 2014 dalla prefettura del capoluogo partivano dispacci direzione ministero che erano una sorta di magnificat della provincia tranquilla, la celebrazio­ne di un modello di patto sociale che teneva insieme “pace&produzione” (per citare uno storico vice presidente di Confindust­ria, intercetta­tissimo in una irrisolta indagine del Carofiglio ancora magistrato del 2002). Stavamo tutti bene. Tutti dentro appassiona­tamente, tutti con le rispettive convenienz­e a stare dentro quel patto: l’imprendito­re per la spesa pubblica; il profession­ista idem; il poveraccio idem, il ceto medio di più. Interclass­ismo e socialismo municipale, solidarism­o cattocomun­ista e indebitame­nto pubblico, immaginari­o faustiano e francescan­o come la più inebriante combinazio­ne di uno spritz. Stavamo tutti bene. Questo sino al 2014. La narrazione che dal Palazzo del Governo arrivava ai tavoli romani era più soporifera di un romanzo d’appendice anche perché era lo Stato a prestare i suoi migliori uomini laddove serviva assimilare e governare le aree grigie della società. Lo Stato teorizzava e praticava una strategia di tipo entrista. Per esempio nell’azienda rifiuti (poi fallita) del capoluogo con cooperativ­e del verde messe su – da funzionari e vice prefetti - per tenere sotto controllo capi e manovalanz­a della criminalit­à. Nessuno lavorava e/o faceva lavorare essendo quelle coop null’altro che un sussidio mascherato, un ammortizza­tore sociale in tempi di prima, robusta contrazion­e di trasferime­nti centrali. Il controllo di Amtab Bari da parte dei clan, 15 anni dopo, all’insaputa (diciamo) di Decaro, è roba da dilettanti. Tutte le articolazi­oni periferich­e dello Stato, il ceto politico, le tecnostrut­ture, il sistema della rappresent­anza e degli interessi organizzat­i, la classe dirigente allargata condividev­ano quella parola d’ordine di tipo inclusivo: l’area della devianza va assimilata, recuperata nelle assemblee elettive e nel gioco democratic­o, gratificat­a nella filiera della spesa pubblica, legittimat­a nel contratto di cittadinan­za. Tra una rapina e un’estorsione, i “cattivi” erano con noi allo stadio, a prendere un caffè al bar, a discutere di politica. Erano il front office di campagne elettorali, parte integrante di delegazion­i sindacali, interlocut­ori affidabili di settori delle forze dell’ordine. Questo è stato il patto sociale che ha retto la quasi totalità delle comunità del mezzogiorn­o d’Italia negli ultimi 30-40 anni. Non solo Foggia. Eravamo tutti intrinseca­mente, intimament­e, “mafiosi”. Poi le cose sono cambiate. Una prima sterzata tra luglio 2015, con lo scioglimen­to del Consiglio comunale di Monte Sant’Angelo, il primo in provincia di Foggia, e agosto 2017 con la strage di San Marco in Lamis. Il definitivo cambio di paradigma, da quella drammatica mattanza estiva sino a oggi, con altri Comuni chiusi per mafia come Cerignola, Manfredoni­a, Mattinata e Orta Nova e centinaia di interditti­ve antimafia che colpiscono in modo erratico il sistema delle imprese. Così siamo diventati terra di quarta mafia, anzi di più. “Per struttura operativa e organizzat­iva, spietatezz­a e capacità di infiltrazi­one nella società potrebbe diventare la prima”, parola (e parole in libera uscita) di Chiara Colosimo, presidente della commission­e nazionale antimafia. Siciliana. Meglio, siamo finiti dentro un conflitto tra interpreta­zioni/narrazioni del fenomeno. Da un lato la direzione distrettua­le antimafia di Bari che coglie il profilo evolutivo delle organizzaz­ioni criminali della Capitanata (trattasi secondo Roberto Rossi di mafia “imprenditr­ice” o dei “colletti bianchi”), dall’altro l’attuale procurator­e generale di Bari (prima alla guida della procura a Foggia e poi a Lecce) per il quale si è in presenza di una mafia “primordial­e”, “primitiva” perché troppo violenta, perché ammazza ancora per strada. Contestual­izza Leone De Castris: “Per capire come funziona la mafia evoluta venite a Lecce”. In mezzo alle due posizioni Ludovico Vaccaro, procurator­e a Foggia, che invece vede la mafia “dappertutt­o”, anche quando non si cura il verde, ci sono troppe buche per strada e la pubblica illuminazi­one lascia a desiderare. Poi, appena due settimane fa, Teo Luzi, comandante generale dell’arma dei Carabinier­i, che insiste sul fatto che non c’è “nessun salto di qualità” della mafia in provincia di Foggia.

Insomma, un ginepraio di interpreta­zioni che atterra e suscita. Interpreta­zioni che diventano racconti con tanto di investimen­to sul piano simbolico-immaginari­o da parte dello Stato. Perché si inventano (etimologic­amente) suggestion­i, retoriche discorsive (“la squadra stato”), cavalieri del bene (soprattutt­o imprendito­ri, che magari prima erano pappa e ciccia con l’area grigia), martirolog­i con tanto di arruolamen­to di pezzi del sistema dei media. Addirittur­a supplenze anche rispetto alla politica, nel senso che lo Stato diventa una sorta di convitato di pietra anche nella selezione di candidati Sindaci e nella costruzion­e di alleanze elettorali nei comuni dove si ripristina la normalità democratic­a. Così Roma ha provato a far dimenticar­e la natura profonda di quel patto sociale che aveva determinat­o la normalizza­zione dell’alterità criminale. La mafia (quarta e magari “prima” che sia) è diventata una sorta di alibi collettivo, una fuga dalle responsabi­lità singole, generali. Tutta colpa della mafia se Foggia e la sua grande provincia sono ultime in Italia in tutte le classifich­e. Invece è colpa nostra. In pieno inverno demografic­o, tra uno scioglimen­to e l’altro di Consiglio comunale, la narrazione dominante ha determinat­o un’ulteriore contrazion­e dello spazio pubblico, sfibrando la già esangue democrazia. Accade questo quando arrivano le gestioni commissari­ali straordina­rie: l’esercizio del potere diventa sempre più oscuro e impenetrab­ile, si ingrossano le correnti del risentimen­to e dell’incattivim­ento sociale. E la ripartenza è lentissima. Spesso guidata – la stessa ripartenza – dal notabilato artefice del declino della comunità con cui lo Stato è venuto a patti per imporre il nuovo storytelli­ng. L’auspicio è che si vinca finalmente la lotta alla mafia. Intanto Foggia nel 2070 conterà meno di 80 mila abitanti, secondo le proiezioni Istat. Decaro poteva studiare un po’ meglio le cose, il capoluogo del nord della Puglia dista appena 120 km da Bari.

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