Un passo tattico contro l’intransigenza di Bibi
Per correggere una posizione difficilmente giustificabile dall’alleato in un consesso avverso allo Stato ebraico
L’astensione statunitense sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, un po’ sbrigativamente rubricata come “cessate il fuoco”, non rappresenta in realtà il “passo indietro” che ha suscitato l’irritazione di Benjamin Netanyahu, e che lo ha indotto ad annullare una serie di appuntamenti che avrebbero dovuto impegnare a Washington diverse delegazioni israeliane. Si tratta invece di un passo tattico - quanto opportuno ed efficace non si può dire - “in avanti”, e cioè nel solco di un’opera di convincimento che non è cominciata ieri e che appare rivolta a correggere l’intransigenza di una posizione, quella del primo ministro israeliano, difficilmente giustificabile da parte dell’alleato in faccia a un consesso di attori internazionali ora puramente avverso allo Stato ebraico, ora semplicemente perplesso davanti a una situazione di stallo percepito se non effettivo. Tra le tante difficoltà di Israele c’è infatti, prominente, l’incapacità o la mancanza di volontà dell’amministrazione e dei comandi militari di offrire un quadro di riscontri aggiornato ed effettivo circa l’opera di distruzione della struttura di Hamas, mentre quel che emerge, e con cui Israele deve fare i conti, è invece il persistere e l’aggravarsi delle condizioni di sofferenza cui è sottoposta la popolazione palestinese. Che questa rappresentazione sia squilibrata da un’informazione palesemente orientata, tesa a maculare di pura volontà vendicativa e sterminatrice l’iniziativa militare di Israele, è senz’altro vero; ma questo non cambia poi molto, anzi non cambia per nulla, lo scenario di pressioni cui gli Stati Uniti sono in ogni caso sottoposti. Pressioni che si facevano sentire nei tanti segnali di dissuasione che l’amministrazione USA aveva lanciato a Israele nelle ultime settimane, specie in vista delle operazioni su Rafah, e che ora - in modo esemplare - si scaricano in una sede internazionale che le assorbe e le rivolta in un applauso il quale, prima che celebrare una sconfitta israeliana, assolve gli Stati Uniti dalla qualifica di sostanziale co-belligerante che a torto o a ragione essi non sopportavano di vedersi affibbiata.
È abbastanza vero, come si mormora da parte di alcuni in Israele, che in realtà l’astensione degli Stati Uniti tradisce una specie di voto per procura: un “cessate il fuoco” tanto diffusamente reclamato quanto poco pronunciabile in modo diretto da Washington, ma efficacemente deliberato da un’assemblea tenuta in ricreazione dal mancato veto nordamericano. Questa scelta tattica non considera - perché altrimenti sarebbe la strategia che sembra proprio non essere - come il progredire dell’isolamento israeliano che essa indubbiamente determina sia percepito, e gestito, dal Paese e dal governo che ne è vittima. Quel che si capisce poco da parte degli osservatori occidentali è che un primo ministro ampiamente screditato e fortemente contestato sta paradossalmente, e per quanto tragico sia lo sviluppo del conflitto, accreditandosi anche presso i più critici. Ma questo processo di ri-accreditamento non dipende affatto da rimeditazioni circa l’immagine e le responsabilità di Netanyahu, che continuano a essere fortemente contestate, bensì, e appunto, dalla plateale riluttanza di tanta parte dell’opinione pubblica mondiale a comprendere che se si tratta di scegliere tra un filibustiere che difende la vita di Israele da quelli che vogliono distruggerlo, da un lato, e i mandanti del segretario Generale dell’Onu secondo cui il 7 ottobre non viene dal nulla, dall’altro lato, allora anche i nemici più convinti sostengono Bibi succeda quel che succeda. Perché in tal modo non sostengono lui, ma il Paese minacciato rimesso alle sue cure di unità nazionale. Che a non capirlo sia anche Joe Biden - e il voto dell’Onu costituisce forse un segno di questa incomprensione - è un problema che va ben oltre le preoccupazioni di Israele. E che può avere effetti incalcolati su un conflitto che non cessa solo perché una maggioranza internazionale schiacciante ordina che il fuoco deve cessare.
Associazione a delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato, turbata libertà di scelta del contraente e corruzione. Il bottino della Procura di Palermo per l’indagine sull’ammodernamento dell’aeroporto “Falcone e Borsellino” di Palermo, a marzo 2017, era ricco: quattro misure cautelari e in totale dieci indagati. Il risultato, a fine del processo di primo grado, un po’ più scarso. Anzi, vuoto: sette assoluzioni e due prescrizioni.
Accuse pesantissime che a marzo del 2017 travolgono il mondo siciliano degli appalti e in particolare l’aeroporto “Falcone Borsellino” del capoluogo.
A farne le spese Carmelo Scelta, ex direttore generale della Gesap (la società che gestisce l’aeroporto Falcone-Borsellino) e Giuseppe Liistro, responsabile unico del procedimento di numerosi appalti. Per loro, il Gip del capoluogo siciliano aveva disposto gli arresti domiciliari. Divieto di dimora per Giuseppe Giambanco, docente universitario di Ingegneria, e il divieto di esercitare presso uffici direttivi di società per l’imprenditore romano Stefano Flammini.
E ci sono voluti esattamente sette anni per mettere la parola fine, almeno in primo grado, e dimostrare che con le accuse formulate dalla procura palermitana i professionisti imputati non c’entrano niente.
Un tempo non da poco, considerato il diritto a un tempo ragionevole del processo.
Pochi giorni fa, il Tribunale di Palermo non ha lasciato spazio ad equivoci: il fatto non sussiste. Per nessuno. I giudici hanno anche riconosciuto la prescrizione per le posizioni degli imprenditori Alessandro Mauro e Carlo Vernetti, amministratore delegato e dirigente della società Quick No Problem Parking. I magistrati giudicanti, inoltre, hanno disposto il dissequestro dei beni e la loro restituzione. Nel 2017 infatti gli investigatori avevano dato notizia di sequestri preventivi per 4 milioni di euro. Secondo
l’accusa, alcuni componenti del vecchio management della società che gestisce i servizi a terra del “Falcone e Borsellino” avrebbe assegnato incarichi e consulenze in maniera diretta trovando delle soluzioni per assegnare i progetti senza bandire una gara pubblica. Una tecnica che avrebbe permesso di dividere i progetti in altrettanti 117 microprogetti e assegnarli sempre alle stesse ditte per un totale di 11 milione di euro. Un teorema accusatorio iniziato già a vacillare quando il Tribunale Riesame aveva fatto cadere l’ipotesi di associazione a delinquere. E che fa eco con l’assoluzione incassata anche da Dario Colombo, ex amministratore delegato di Gesap, assolto da tutte le accuse, e che in passato aveva optato per il rito abbreviato. “Siamo molto soddisfatti per la decisione che ha riconosciuto l’assoluta insussistenza dei fatti di reato contestati a scelta. Rimane tuttavia l’amarezza per le sofferenze subite e per essere stato ingiustamente indagato, arrestato e processato”, hanno commentato Giovanni Di Benedetto e Fabio Ferrara, gli avvocati di Carmelo Scelta. Che, insieme a Liistro, ha subito le conseguenze più gravi di un’indagine iniziata nel 2012, che nel 2017 ha portato alle misure cautelari e dopo sette anni, si conclude con un nulla di fatto: assoluzione per tutti.