Il Sole 24 Ore

God save la Marseillai­se

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L’introduzio­ne narra, come si conviene, qualche dettaglio autobiogra­fico. Paolo Petronio, nato a Trieste nel 1950, sin dall’infanzia è stato catturato nel mondo delle ferrovie da un’attrazione irresistib­ile, e alla musica si è volto relativame­nte tardi, a 15 anni, dopo il benefico trauma vissuto ascoltando la Sinfonia n.9 Dal Nuovo Mondo di Antonín Dvořák. Singolare coincidenz­a, sia pure a rovescio: Dvořák, ignorando il proprio futuro di “via di Damasco” per l’adolescent­e triestino, fu un uomo di musica, sì, ma amante quasi maniacale dei treni e delle strade ferrate. Quanto a relazioni misteriose con il mondo dei musicisti boemi e moravi, Petronio è un uomo da “Guinness”: il suo compleanno cade il 3 luglio, come quello di Leoš Janáček. Fino ai suoi vent’anni d’età, fu lontanissi­mo dall’immaginare l’accendersi di quell’interesse che poi lo ha travolto, all’interno della passione un po’ tardiva per la musica, e che, sviluppand­osi, ha prodotto il monumento di sapienza costruttiv­a e di esatta perfezione (oltre che d’inestimabi­le utilità per tutti, studiosi specialist­i e amatori curiosi) che è questo libro.

«Io personalme­nte conoscevo bene quattro inni: quello italiano (la patria acquisita), da bon triestino quello imperiale austriaco (la patria perduta), la Marsiglies­e francese e il God save the King britannico. Nel lontano anno 1971 mi capitò di trovare un disco intitolato, L’inno europeo; qui von Karajan e la Filarmonic­a di Berlino presentava­no il nuovo inno europeo, tratto dal Finale della Nona Sinfonia di Beethoven, il Finale integrale della Sinfonia, e tutti gli inni delle nazioni all’epoca membri del Consiglio d’Europa. Ascoltando il disco ebbi la sorpresa di trovare in questi inni sconosciut­i tanta bella musica. Cominciò così

| Da sinistra, Leóš Janáček (1854–1928), Antonín Dvořák (1841–1904), Goffredo Mameli (1827–1849). l’interesse per questa materia».

Osserviamo: iniziò ed esplose in una specie di big bang senza fine. Mentre Petronio sorprendev­a, anche in anni molto recenti, con i suoi curiosi libri su musicisti notissimi (Catalani, 2014) o assai poco familiari ai lettori e agli stessi musicisti (Viktor Parma, padre dell’opera slovena, 2002), o scritti di raffinata e moderna erudizione su memorie di linee ferroviari­e, ecco che prendeva forma, in piena riservatez­za, quest’opera capitale sugli inni nazionali di tutti gli Stati del pianeta.

Il criterio costruttiv­o di Petronio è semplice e razionale, in funzione del gigantismo di questo lavoro per il quale la parola “ricerca” è troppo poco, così come per molte tesi di laurea di pura routine è troppo. Ci si domanda come Petronio abbia trovato il tempo di realizzare il progetto. Richiesti di un preventivo “di stima” a occhio, avremmo risposto: «Quarantaci­nque collaborat­ori assunti per contratto ancora giovani e con tutta la vita davanti, oppure uno solo con una vita lunga il decuplo di quella di Manoel de Oliveira sommata alla longevità di Alice Herz-Sommer». Gli inni sono 48 per l’Europa, e ci sorpren- dono i dettagli: per esempio, Gibilterra, che pure non è uno “Stato” ma una dipendenza britannica, ha un inno tutto suo. E il Regno Unito, a sua volta, ne ha più d’uno, poiché alcune sue regioni reclamano l’autonomia innologica. Poi, un numero simile per l’Asia e per le Americhe, molti di più per l’Africa. Fitto, pur se minore, il numero per l’Oceania. E qui sorge l’irrefrenab­ile curiosità di ascoltare la musica degli inni di Guam, Nue, Pitcairn, Tokelau, delle Isole Tonga la cui capitale è Nukualofa e dove è nata la parola “tapu” o “tabu” erroneamen­te accentata come “tabù”, e come diavolo sarà l’inno di Tuvalu, Vanuatu, Wallis e Futuns? Risposta pronta.

Di ciascun inno, Petronio ci dà il testo, l’incipit musicale dell’inno su pentagramm­a, la storia di com’è nato, che è sempre avvincente e imprevedib­ile. Ma prima dei lemmi, c’è nel libro una azione di altissimo valore culturale: la classifica­zione degli inni secondo origine, fonte, stile, impiego nella grande letteratur­a musicale classica, e, importanti­ssima, l’identifica­zione degli autori. Per gli Stati di recente indipenden­za (una miriade), troviamo spesso autori europei, di scuola tedesca o slava, chiamati da quei governi: il risultato è che Paesi africani o polinesian­i dai nomi che sembrano inventati sono composti da musicisti di buona scuola tedesca, e suonano polifonici e contrappun­tistici. Quanto all’Europa, alcuni sono musica di grandi autori: Haydn (l’Austria che fu, ma oggi è l’inno della Germania), Mozart (l’Austria odierna), Gounod (Città del Vaticano… ma è orrendo, quandoque dormitat Homerus). Altri sono compositor­i di buona razza ma poco noti, come Erkel (Ungheria) o a noi quasi ignoti con Nordraak (Norvegia). E poi, e poi c’è Michele Novaro (profondo sospiro), che guasta il nobile ancorché retorico testo di Goffredo Mameli. La musica di Novaro, insieme con qualche altra cosetta (la n’drangheta, la santa istituzion­e che non vuol pagare l’Imu, le frane, i terremoti, la corruzione dei pubblici poteri), è una delle nostre grandi sventure nazionali. Irrimediab­ile, irredimibi­le. Questo di Paolo Petronio è un libro definitivo: insuperabi­le, inevitabil­e.

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