L’Europa non faccia pasticci sul «made in»
Già l’«industrial compact» era sparito dai radar della Commissione Juncker: una proposta coerente di politica industriale europea che negli anni scorsi l’allora commissario Ue competente, Antonio Tajani, era riuscito a fare entrare nell’agenda Barroso anche grazie alla spinta della riuscita reindustrializzazione americana e del rilancio della crescita economica che ne è seguito.
Era scomparso per inseguire le nuove priorità del quinquennio: la creazione di un’economia digitale integrata, competitiva e non più succube della imperante supremazia Usa e la nascita di una vera Unione europea dell’energia. In realtà le due nuove arrivate non escluderebbero la prima. Semmai si completerebbero a vicenda. Evidentemente a Bruxelles e dintorni si pensa altrimenti.
Se ora, come molti temono, dovesse arrivare anche il depennamento del “made in” dalle proposte Ue si farebbe l’en plein in negativo: un passo indietro a conferma dell’inconciliabilità degli interessi industriali Nord-Sud, dell’ennesima divergenza culturalstrutturale che non aiuta ma turba da tempo la convivenza dentro moneta e mercato unici.
Da quasi dieci anni l’Italia, con un gruppo di Paesi che non riesce a diventare maggioranza nell’Unione dei 28, tenta di strappare all’Europa una legislazione che imponga a tutti gli operatori economici, imprenditori e importatori, l’obbligo di indicare l’origine dei loro prodotti. Come avviene negli Stati Uniti, in Giappone e anche in Cina. A salvaguardia della sicurezza dei cittadini-consumatori e come mezzo di lotta anti-contraffazione e pirateria industriale.
Niente da fare. Due anni fa però Tajani era tornato alla carica con due proposte di regolamenti Ue, una sulla tracciabilità dei prodotti, l’altra sul controllo più efficace dei mercati nazionali. Oggi oltre il 90% delle merci in circolazione nella Ue non viene controllato, con inevitabili danni per gli utenti. Nel 2014 l’Europarlamento le aveva approvate a larga maggioranza ma poi le due misure si sono fermate al Consiglio dei ministri Ue, bloccate da tedeschi, inglesi, olandesi, baltici e scandinavi, convinti che il “made in” li danneggerebbe.