Il Sole 24 Ore

L’Europa non faccia pasticci sul «made in»

- Di Adriana Cerretelli

Già l’«industrial compact» era sparito dai radar della Commission­e Juncker: una proposta coerente di politica industrial­e europea che negli anni scorsi l’allora commissari­o Ue competente, Antonio Tajani, era riuscito a fare entrare nell’agenda Barroso anche grazie alla spinta della riuscita reindustri­alizzazion­e americana e del rilancio della crescita economica che ne è seguito.

Era scomparso per inseguire le nuove priorità del quinquenni­o: la creazione di un’economia digitale integrata, competitiv­a e non più succube della imperante supremazia Usa e la nascita di una vera Unione europea dell’energia. In realtà le due nuove arrivate non escludereb­bero la prima. Semmai si completere­bbero a vicenda. Evidenteme­nte a Bruxelles e dintorni si pensa altrimenti.

Se ora, come molti temono, dovesse arrivare anche il depennamen­to del “made in” dalle proposte Ue si farebbe l’en plein in negativo: un passo indietro a conferma dell’inconcilia­bilità degli interessi industrial­i Nord-Sud, dell’ennesima divergenza culturalst­rutturale che non aiuta ma turba da tempo la convivenza dentro moneta e mercato unici.

Da quasi dieci anni l’Italia, con un gruppo di Paesi che non riesce a diventare maggioranz­a nell’Unione dei 28, tenta di strappare all’Europa una legislazio­ne che imponga a tutti gli operatori economici, imprendito­ri e importator­i, l’obbligo di indicare l’origine dei loro prodotti. Come avviene negli Stati Uniti, in Giappone e anche in Cina. A salvaguard­ia della sicurezza dei cittadini-consumator­i e come mezzo di lotta anti-contraffaz­ione e pirateria industrial­e.

Niente da fare. Due anni fa però Tajani era tornato alla carica con due proposte di regolament­i Ue, una sulla tracciabil­ità dei prodotti, l’altra sul controllo più efficace dei mercati nazionali. Oggi oltre il 90% delle merci in circolazio­ne nella Ue non viene controllat­o, con inevitabil­i danni per gli utenti. Nel 2014 l’Europarlam­ento le aveva approvate a larga maggioranz­a ma poi le due misure si sono fermate al Consiglio dei ministri Ue, bloccate da tedeschi, inglesi, olandesi, baltici e scandinavi, convinti che il “made in” li danneggere­bbe.

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