Ora si lavori per migliorare la riforma del Senato
In politica le circostanze e i contesti modificano i principi astratti e se non si fa i conti con questi non si capisce molto.
In astratto sono tutti d’accordo che una legge elettorale andrebbe largamente condivisa, negoziata con il più ampio spettro possibile di forze. Lo affermò Renzi ai tempi in cui concludeva il cosiddetto patto del Nazareno (e allora la sinistra e il M5S gridarono allo scandalo...), ma è stato un mantra che si è ripetuto in continuazione negli ultimi trent’anni. Il problema è che questo largo accordo condiviso sembra non si riesca a trovare, perché tutte le posizioni cambiano continuamente. C’è da divertirsi (si fa per dire) ad inseguire le prese di posizione su questa materia che si sono susseguite appunto nel trentennio a cui si faceva cenno: le stesse persone hanno sostenuto a volte una tesi e a volte la tesi esattamente opposta, sempre ribadendo che quanto proponevano al momento era l’unica cosa che si potesse condividere.
Allora la questione va posta in altri termini: cosa si deve fare se dopo un periodo così lungo non si riesce a trovare il famoso largo accordo trasversale? Tergiversare all’infinito? Attendere che accada il miracolo per cui la larga condivisione sarà creata non si sa per quali vie? Certo c’è una tendenza nella storia dell’Italia ad agire sempre così, essendo il nostro un paese fondato sulla sfiducia reciproca e sulla presunzione che ciascuno lavori solo per fregare l’altro, ma il risultato è stato quasi sempre se non un immobilismo, un logoramento spossante nell’individuazione di soluzioni a qualche verso condivise, logoramento che alla fine ha prodotto leggi contraddittorie e di difficile applicazione (non vale certo solo per le leggi elettorali).
Renzi dice che vuole rompere questa tradizione perversa e si trova contro una parte non piccola della nostra cultura politica che, senza ammetterlo, è tutto sommato imbevuta della mentalità appena descritta.
Tuttavia per capire lo strappo del premier non ci si può fermare a questo livello. Partiamo da un dato: la bocciatura di una legge con cui il governo si è identificato comporta automaticamente la sua caduta, sia stata o meno posta la questione di fiducia. Perché allora Renzi ha ritenuto di doverla proporre esplicitamente accettando di essere attaccato a fondo per questo?
A noi la risposta sembra semplice: perché il progetto dei suoi avversari era quello di compromettere la legge modificandola, ma di sostenere al tempo stesso che ciò non comportava alcuna “sfiducia” al governo in carica, perché quella sarebbe una legge “parlamentare” che non riguarda il programma di governo (tesi ardita, ma tant’è). Il risultato sarebbe stato questo: o Renzi si sottoponeva ad accettare questa interpretazione, e diventava un leader pesantemente azzoppato, oppure si assumeva l’onere di dimettersi per iniziativa propria, senza che, a detta dei suoi avversari, il governo fosse stato sfiduciato.
Le conseguenze non sarebbero state di poco conto in questo secondo caso, perché si poteva sostenere che allora non c’era alcun bisogno di sciogliere la legislatura e che si potevano trovare soluzioni parlamentari per un nuovo e diverso governo. Si sarebbe potuta creare una maggioranza di qualche genere contando sul fatto che, sempre rimanendo nel quadro di questo gioco d’azzardo, nessuno della attuale maggioranza aveva davvero votato contro il governo in carica (e dunque molti si potevano riciclare, perché la minoranza Pd da sola non ha i numeri per costruire una nuova coalizione di governo).
Renzi, a cui non manca il fiuto per la tattica politica, ha bruciato i ponti alle spalle dei suoi avversari e scegliendo di porre la questione di fiducia obbliga ad un pronunciamento esplicito sull’esecutivo che guida: chi si pronuncia a favore, non potrà, nel caso il governo venisse battuto, riciclarsi in un’altra maggioranza abborracciata; chi si pronuncia contro, se perde, sarà costretto a subire una sconfessione storica che lo neutralizza.
Si tratta indubbiamente di una chiarificazione brutale e come tale destinata a lasciare sul terreno danni collaterali rilevanti (soprattutto per il paese), ma per come i contendenti hanno posizionato le loro truppe in questi ultimi mesi era difficile immaginare potesse finire in maniera diversa.
Ci sarebbe da augurarsi che all’ultimo istante prevalesse il buon senso e che in luogo di intestardirsi a fare a cornate sull’Italicum si lavorasse per migliorare la riforma del Senato, terreno sul quale il premier ha fatto aperture (ovviamente da verificare). Ci vuole qualche acrobazia procedurale, ma non è impossibile. Se sta a cuore il bilanciamento dei poteri, meglio cercare di raggiungerlo con interventi in positivo, piuttosto che facendo naufragare ogni tentativo di riforma con la scusa che si potrebbe fare molto meglio.