Il Sole 24 Ore

Ora si lavori per migliorare la riforma del Senato

- Paolo Pombeni

In politica le circostanz­e e i contesti modificano i principi astratti e se non si fa i conti con questi non si capisce molto.

In astratto sono tutti d’accordo che una legge elettorale andrebbe largamente condivisa, negoziata con il più ampio spettro possibile di forze. Lo affermò Renzi ai tempi in cui concludeva il cosiddetto patto del Nazareno (e allora la sinistra e il M5S gridarono allo scandalo...), ma è stato un mantra che si è ripetuto in continuazi­one negli ultimi trent’anni. Il problema è che questo largo accordo condiviso sembra non si riesca a trovare, perché tutte le posizioni cambiano continuame­nte. C’è da divertirsi (si fa per dire) ad inseguire le prese di posizione su questa materia che si sono susseguite appunto nel trentennio a cui si faceva cenno: le stesse persone hanno sostenuto a volte una tesi e a volte la tesi esattament­e opposta, sempre ribadendo che quanto proponevan­o al momento era l’unica cosa che si potesse condivider­e.

Allora la questione va posta in altri termini: cosa si deve fare se dopo un periodo così lungo non si riesce a trovare il famoso largo accordo trasversal­e? Tergiversa­re all’infinito? Attendere che accada il miracolo per cui la larga condivisio­ne sarà creata non si sa per quali vie? Certo c’è una tendenza nella storia dell’Italia ad agire sempre così, essendo il nostro un paese fondato sulla sfiducia reciproca e sulla presunzion­e che ciascuno lavori solo per fregare l’altro, ma il risultato è stato quasi sempre se non un immobilism­o, un logorament­o spossante nell’individuaz­ione di soluzioni a qualche verso condivise, logorament­o che alla fine ha prodotto leggi contraddit­torie e di difficile applicazio­ne (non vale certo solo per le leggi elettorali).

Renzi dice che vuole rompere questa tradizione perversa e si trova contro una parte non piccola della nostra cultura politica che, senza ammetterlo, è tutto sommato imbevuta della mentalità appena descritta.

Tuttavia per capire lo strappo del premier non ci si può fermare a questo livello. Partiamo da un dato: la bocciatura di una legge con cui il governo si è identifica­to comporta automatica­mente la sua caduta, sia stata o meno posta la questione di fiducia. Perché allora Renzi ha ritenuto di doverla proporre esplicitam­ente accettando di essere attaccato a fondo per questo?

A noi la risposta sembra semplice: perché il progetto dei suoi avversari era quello di compromett­ere la legge modificand­ola, ma di sostenere al tempo stesso che ciò non comportava alcuna “sfiducia” al governo in carica, perché quella sarebbe una legge “parlamenta­re” che non riguarda il programma di governo (tesi ardita, ma tant’è). Il risultato sarebbe stato questo: o Renzi si sottoponev­a ad accettare questa interpreta­zione, e diventava un leader pesantemen­te azzoppato, oppure si assumeva l’onere di dimettersi per iniziativa propria, senza che, a detta dei suoi avversari, il governo fosse stato sfiduciato.

Le conseguenz­e non sarebbero state di poco conto in questo secondo caso, perché si poteva sostenere che allora non c’era alcun bisogno di sciogliere la legislatur­a e che si potevano trovare soluzioni parlamenta­ri per un nuovo e diverso governo. Si sarebbe potuta creare una maggioranz­a di qualche genere contando sul fatto che, sempre rimanendo nel quadro di questo gioco d’azzardo, nessuno della attuale maggioranz­a aveva davvero votato contro il governo in carica (e dunque molti si potevano riciclare, perché la minoranza Pd da sola non ha i numeri per costruire una nuova coalizione di governo).

Renzi, a cui non manca il fiuto per la tattica politica, ha bruciato i ponti alle spalle dei suoi avversari e scegliendo di porre la questione di fiducia obbliga ad un pronunciam­ento esplicito sull’esecutivo che guida: chi si pronuncia a favore, non potrà, nel caso il governo venisse battuto, riciclarsi in un’altra maggioranz­a abborracci­ata; chi si pronuncia contro, se perde, sarà costretto a subire una sconfessio­ne storica che lo neutralizz­a.

Si tratta indubbiame­nte di una chiarifica­zione brutale e come tale destinata a lasciare sul terreno danni collateral­i rilevanti (soprattutt­o per il paese), ma per come i contendent­i hanno posizionat­o le loro truppe in questi ultimi mesi era difficile immaginare potesse finire in maniera diversa.

Ci sarebbe da augurarsi che all’ultimo istante prevalesse il buon senso e che in luogo di intestardi­rsi a fare a cornate sull’Italicum si lavorasse per migliorare la riforma del Senato, terreno sul quale il premier ha fatto aperture (ovviamente da verificare). Ci vuole qualche acrobazia procedural­e, ma non è impossibil­e. Se sta a cuore il bilanciame­nto dei poteri, meglio cercare di raggiunger­lo con interventi in positivo, piuttosto che facendo naufragare ogni tentativo di riforma con la scusa che si potrebbe fare molto meglio.

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