Beni a valore normale se da paesi collaborativi
valore fiscalmente riconosciuto delle attività e passività della società che si trasferisce dall’estero in Italia è pari al valore normale delle stesse.
Lo schema di decreto legislativo del 21 aprile 2015 di attuazione della delega fiscale interviene espressamente, per la prima volta, a regolare il trasferimento della residenza dall’estero nel nostro paese per i soggetti che esercitano imprese commerciali.
L’articolo 12 del provvedimento introduce l’articolo 166-bis nel Tuir per stabilire quale valore fiscale attribuire ai beni – attività e passività - della società “entrante” nel nostro Paese; beni che, in quel momento, non hanno ancora alcun valore riconosciuto nel nostro ordinamento.
I «vecchi» criteri di valutazione
Sino ad oggi, sostanzialmente, si sono contrapposte due tesi: e il valore fiscale di immissione dei beni nella sfera d’impresa dello Stato italiano è rappresentato dal costo storico di acquisto del bene; r il valore è quello corrente, determinato con le regole del Tuir, che i beni possiedono all’atto dell’ingresso nella sfera d’impresa del nostro Paese.
Una terza tesi, minoritaria, è quella dell’entrata del bene al valore utilizzato dallo Stato estero per la determinazione dell’exit tax, non necessariamente coincidente con il valore normale previsto dall’articolo 9 del Tuir (cosiddetto “step up”).
In assenza di una previsione di legge, nella prassi amministrativa, a seguito di alcune pronunce dell’agenzia delle Entrate (risoluzione del 5 agosto 2008, n. 345), si era pervenuti, in sintesi, alle seguenti conclusioni: 1 il valore iniziale coincide con il costo originario laddove vi sia continuità giuridica ai fini civilistici; 1 la presa in carico dei beni nel nostro ordinamento deve avvenire al valore normale laddove nello Stato estero il trasferimento dia luogo a una tassazione in uscita sui plusvalori latenti fino al momento del trasferimento (exit tax), al fine di evitare fenomeni di doppia tassazione.
I nuovi criteri di valutazione
Lo schema di provvedimento prevede, come criterio generale, il riconoscimento al valore normale alla data di ingresso in Italia delle attività e passività trasferite, anche in assenza dell’applicazione di una tassazione in uscita nello Stato estero, a condizione che il trasferimento avvenga da Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni. Si tratta degli Stati inclusi nella lista di cui all’articolo 11, comma 4, lettera c) del decreto legislativo 239/1996.
Se il trasferimento in Italia avviene, invece, da Paesi diversi da quelli “collaborativi” il criterio resta quello del valore normale soltanto se fissato preventivamente mediante un accordo con l’agenzia delle Entrate stipulato ai sensi del nuovo articolo 31- ter del Dpr 600/1973.
In assenza di tale accordo, il valore fiscale è pari, per le attività, al minore tra costo di acquisto, valore di bilancio e valore normale, e al maggiore tra questi per le passività.
In sostanza, in mancanza di un accordo preventivo la disciplina prevede un trattamento più penalizzante.
Sono demandate a un provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate le modalità di segnalazione dei valori delle attività e delle passività oggetto di trasferimento.
La scelta del valore normale come criterio generale, adottata dal provvedimento, è una soluzione che ben si inquadra all’interno del “pacchetto” di norme che tende a rendere più attrattivo il nostro paese per i soggetti esteri e che, dal punto di vista dei principi generali, risponde a un principio cardine sottostante il reddito d’impresa in base al quale vanno assoggettati ad imposizione tutti i plusvalori maturati in tale regime e non anche quelli maturati al di fuori di esso, laddove per plusvalori conseguiti al di fuori della sfera d’impresa devono intendersi non solo quelli maturati in capo al soggetto non imprenditore ma anche al di fuori del territorio italiano (seppure in regime d’impresa).
In sostanza, si tassano in Italia solo i plusvalori ivi maturati e non anche quelli maturati all’estero e qui “importati”.
Questa soluzione era stata già accolta anche dal Consiglio nazionale del notariato (studio n. 152-2008/T) che, per confutare l’obiezione per cui se lo Stato estero non prevede una exit tax si avrebbe un salto d’imposta, afferma che in ogni caso non possono essere tassati in Italia plusvalori maturati nello Stato estero «sui quali sarà lo Stato di provenienza ad esercitare la propria potestà impositiva, anche rinunciandovi».
Inoltre, va osservato che se lo Stato estero riconosce “in uscita” le minusvalenze relative ai beni ed è adottato il criterio del costo storico, si determinerebbe un fenomeno di doppia deduzione delle minusvalenze, diversamente da quanto avviene adottando il valore normale.