«Qualifica» di mafioso anche senza la prova dell’affiliazione rituale
attesa delle Sezioni Unite sugli affiliati “all’estero” delle associazioni mafiose (si veda Il Sole 24 Ore del 17 aprile scorso, ordinanza di rimessione n.15807), la stessa Seconda penale torna sul tema dell’appartenenza al sodalizio, presupposti e condizioni. L’occasione è il ricorso di un sospetto boss calabrese contro l’ordinanza - reiterata - di custodia cautelare dopo un primo annullamento con rinvio della Suprema Corte. Per la Cassazione (17861/15, depositata ieri) si può tranquillamente prescindere dalla pro- va dell’ingresso «formale» nel clan, bastando valorizzare gli elementi di prova «sostanziali che indicano l’utilizzo del metodo mafioso».
Secondo la difesa del presunto boss, la procura reggina per chiedere - e ottenere - la misura cautelare aveva sottolineato la sola «evidente tensione a controllare l’area mercatale» oggetto dell’inchiesta «unitamente al riconoscimento della caratura criminale» del soggetto indagato «che origina dalle conversazioni intercettate». In sostanza, a giudizio degli inquirenti, i due presupposti dimostravano l’esistenza «di una attività di controllo del territorio che le mafie storiche hanno tradizionalmente utilizzato per gestire i loro interessi economici». Per la difesa, invece, in questo quadro mancherebbe del tutto la pro- va del legame tra l’indagato e gli altri appartenenti al sodalizio, oltre alla «consapevolezza di contribuire attivamente alla vita dell’associazione». In sostanza il Gip reggino avrebbe dedotto la qualifica di affiliato da semplici dati sociologici, ignorando i rituali di affiliazione.
Ma proprio dal “rituale” parte la motivazione della Seconda, poichè «se presente, esso può sicuramente considerarsi indicativo della partecipazione; di contro non può tuttavia ritenersi esistente alcun automatismo tra l’affiliazione e la prova della partecipazione al sodalizio».
Spazio allora a un ventaglio di considerazioni e valutazioni delle corti di merito, dalla commissione dei delitti/scopo ai facta concludentia, dall’investitura di «uomo d’onore» fino ai comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova, indizi da valutare congiuntamente nello specifico periodo considerato dall’imputazione. La struttura dell’articolo 416/bis del Codice penale, scrive il relatore, «consente di prescindere dal ricorso ad indici probatori che indicano l’ingresso “formale” nel sodalizio e consente invece di valorizzare elementi di prova “sostanziali” che indichino l’utilizzo del metodo mafioso finalizzata alla consumazione di reati fine o al controllo di attività economiche».
E neppure è necessario che l’affiliato commetta specifici reati-fine, aggiunge poi la Seconda, «perchè il contributo del partecipe può essere costituito anche dal semplice inserimento all’interno della compagine criminale, secondo modalità tali da poterne desumere la completa “messa a disposizione” dell’organizzazione mafiosa».
REATI-FINE NON NECESSARI Secondo i giudici è sufficiente la completa «messa a disposizione» per poter contestare l’appartenenza criminale