La lenta redistribuzione del lavoro
Oggi sarà solo il primo maggio. Non sarà la Festa del lavoro. I dati dell’indagine campionaria dell’Istat hanno ancora una volta gelato gli entusiasmi accesi dalla rilevazione amministrativa del ministero del Lavoro su attivazioni e cessazioni. E dunque c’è ancora poco da festeggiare anche se qualcosa sta cambiando.
I dati sono presto detti: in un mese a marzo abbiamo perso 59mila posti di lavoro e aumentatodi52milaunitàl’esercitodi3,3milioni di persone. Il 25 aprile il ministero segnalava con soddisfazione che il saldo tra nuovi contratti e contratti cessati era positivo di 92mila unità facendo pensare a una svolta.
Le due rilevazioni fotografano situazioni non omogenee: l’indagine amministrativa non tiene conto del pubblico impiego, dei lavori interinali, del lavoro autonomo e quindi anche delle partite Iva (molte delle quali chiuse e in parte trasmigrate in contratti più stabili), quindi può indicare una tendenza parziale sul lavoro dipendente “classico”, manonsull’interopanoramaoccupazionale oggetto dei “radar” dell’Istat. A marzo, il mese di debutto effettivo del jobs act unito agli sgraviprevistidallaleggedistabilitàoperativi già da gennaio, si è registrata una redistribuzione di occupazione: si è passati dai contrattiprecarioinstabiliversoinuovicontrattiatempoindeterminatoatutelecrescentidi nuova edizione. Un dato di per sé positivo anche se non è ancora il nuovo corso per la creazione di posti di lavoro aggiuntivi.
I morsi della crisi più dura di una guerra hanno lasciato segni profondi e non si recuperano in pochi mesi. La recessione ha distrutto il 10% del Pil e da più di 20 anni l’Italia non conosce segno positivo negli indicatori della produttività che chiamano in causa un costodellavorofuoriregistro, untotaltaxrate da incubo per chiunque voglia investire, una ricerca affidata al pionierismo delle aziende più innovative spesso nemmeno rilevate dalle statistiche, una burocrazia nemicadellosviluppo, uncontestodellagiustizia incerto nei risultati e infinito nei tempi.