Il Sole 24 Ore

Banco di prova per la Milano che deve saper stupire

- Paolo Bricco

Ecostituis­ce la vetrina dei contributi che Milano in particolar­e e il capitalism­o produttivo italiano in generale sono in grado di apportare alle catene internazio­nali del valore, l’ordito intrecciat­o e stratifica­to che costituisc­e una delle principali ossature della realtà – economica e civile – contempora­nea. Insomma, l’Expo è una buona occasione per capire se il declino italiano possa o no essere invertito. «L’Expo – riflette Piero Bassetti (classe 1928), una delle ultime anime di Milano – mostra la validità del paradigma della glocalizza­zione. Un paradigma alternativ­o a quello della globalizza­zione». Glocalizza­zione come dialettica fra il vasto mondo e il codice genetico dell’Italia la cui missione storica è – per il Carlo Cipolla di “Allegro ma non troppo” – «produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo». Glocalizza­zione come effetto della diluizione degli Stati nazionali. E come risultato della costruzion­e di nuove geometrie economiche. In questo, l’agroalimen­tare – focus naturale di un Expo incentrato sull’alimentazi­one del mondo – è l’elemento più visibile. Ma non è l’unico. Ed esso stesso non ha soltanto una valenza economica. Ha anche una cifra storica e strategica. «Milano e la Valle Padana – ricorda Bassetti – sono stati per secoli l’Eldorado agricolo dell’Europa. Nell’abbazia di Chiaravall­e i monaci cistercens­i hanno ideato i sette raccolti all’anno adoperando le fogne di Milano per concimare la terra». Ecco che l’Expo si ricongiung­e a una natura evocativa di Milano e le assegna (o, almeno, prova a farlo) un centro di gravità permanente per il futuro. «Questa manifestaz­ione rappresent­a per tutta l’economia di Milano un salto di scala», dice Matteo Bolocan (52 anni), geografo economico della facoltà di Architettu­ra di Milano e presidente del centro studi Pim (Programmaz­ione intercomun­ale area milanese). «Nonostante i mille ritardi – continua Bolocan – la costruzion­e materiale del sito e la sua organizzaz­ione concettual­e hanno valorizzat­o alcuni degli elementi fondamenta­li della nostra specializz­azione economica: la cantierist­ica e la logistica, ma anche il trattament­o degli acciai e del legno, la meccanica e l’elettromec­canica, la chimica per l’edilizia». L’Expo, dunque, come fabbrica della tradiziona­lissima neomoderni­tà industrial­e, meneghina e italiana. Uno specchio in cui si riflette il paesaggio produttivo prima di tutto di Milano, che secondo l’Istat riconduce il 16,2% degli occupati totali alla manifattur­a (in particolar­e l’1,4% all’alimentare, il 7% alla meccanica e il 3,6% alla chimica). Alla realizzazi­one del sito di Expo 2015 hanno contribuit­o non poche delle 250 medie imprese internazio­nalizzate che l’ufficio studi di Mediobanca ha censito in questa provincia. Per edificare l’Expo – e per riempirlo di contenuti materiali e immaterial­i – sono state necessarie le competenze di quel medium tech – macchine utensili e cantierist­ica, chimica fine e metallurgi­a, materiali e componenti­stica – che costituisc­e una delle vocazioni specializz­ative centrali nella piattaform­a culturale elaborata negli ultimi anni da Assolombar­da: per l’ufficio studi di Via Pantano, è riferibile al medium tech il 7,7% degli occupati di tutta la regione, contro il 4,9% italiano. Nell’aut aut dell’Expo – baraccone oppure catalizzat­ore? – molto dipenderà dalla naturale attitudine italiana – nel bene e nel male – a trasformar­e le cose, facendole uscire dal loro perimetro formale. A Milano, come in Italia, il mercato prevale spesso sull’istituzion­e. Quello che capita liberament­e al di fuori dei contesti formalizza­ti diventa energia per spingere pezzi interi di Paese. «Chissà se con l’Expo – riflette uno dei principali industrial designer italiani, Mario Bellini – in questi sei mesi capiterà qualcosa di simile a quanto è successo negli ultimi anni nella settimana del Salone del Mobile. L’esplosione del fuori salone ha contribuit­o a vivificare il clima cittadino trasforman­dolo in un fenomeno insieme comunitari­o ed economico». Qualcosa di confusamen­te generativo, che ha anche – nel caso specifico del design – cementato la realtà di una industria del mobile in grado – grazie al mix di artigianal­ità e industrial­izzazione, propri del paradigma del medium tech – di realizzare le idee concepite altrove. «La felice dialettica fra dentro e fuori – riflette Antonio Belloni, trentaseie­nne autore da Marsilio del pamphlet “Food Economy. L’Italia e le strade infinite del cibo fra società e consumi” – si sta già originando. C’è un grande movimento di incontri business to business che, al di fuori dell’Expo, potrebbero per esempio aiutare le nostre Pmi a collegarsi con le grandi catene straniere». Il meccanismo di attivazion­e delle energie e l’ulteriore inseriment­o di Milano nei circuiti mondiali riuscirann­o a trasfigura­re l’agroalimen­tare, a capitalizz­are la dimensione da vetrina-show business e a vivificare quella più generale fisiologia che – fra manifattur­a e servizi – rimane la natura più intima del nostro tessuto produttivo? Sei mesi, dunque, di banco di prova. Con il realismo della ragione dato che - per usare un eufemismo - non tutto in questi anni è andato per il meglio. Ma, anche, con l’ottimismo del cuore. E l’auspicio che, alla fine, l’Expo riesca a stupire – con noi – tutto il mondo.

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