Il Sole 24 Ore

Il disgelo della Turandot metafora dell’evento

- Armando Torno

Il “disgelo” è nel finale che egli non riuscì a scrivere: mancava la parte in cui la principess­a si sarebbe abbandonat­a finalmente all’amore. La terminò Franco Alfano su invito di Ricordi e, un’ottantina di anni più tardi, Luciano Berio. La prima soluzione è nota e il pubblico della Scala ben la conosce; la seconda sarà eseguita per la prima volta nel massimo teatro italiano sotto la bacchetta di Riccardo Chailly in questo 1° maggio nel concerto d’apertura di Expo. È un rito propiziato­rio oltre che un elaborato frammento musicale.

Berio lo compose nel 2001 riprendend­o 23 dei complessiv­i 30 schizzi lasciati da Puccini; la prima assoluta fu diretta dallo stesso Chailly nel 2002 al Festival delle Canarie. Va ricordato che compositor­e e direttore si consultaro­no a lungo per creare questo finale, tanto che non è esagerato parlare di continuo confronto tra i due. Va altresì detto che per questa nuova parte di “Turandot” è in corso una serie di discussion­i: vi partecipan­o i nostalgici di Alfano, i nemici della musica contempora­nea e coloro che si dimentican­o che anche il medesimo Alfano ebbe dei problemi, persino con Arturo Toscanini.

Terminare un’opera classica rimasta incompiuta è un atto creativo che ogni tempo ha il diritto di realizzare per poterla far rivivere o reinterpre­tare, per ridarle una voce diversa da quelle del passato. Berio è uno dei grandi compositor­i del Novecento e Chailly uno dei massimi direttori della nostra epoca: non è il caso di aggiungere altro, se non il fatto che la loro soluzione è quella dei giorni che viviamo.

Il passaggio dal lutto per Liù allo “sgelamento”, all’ardore di Calaf e a un rapido lieto fine non è impresa semplice. Berio ha utilizzato il più possibile gli schizzi, inclusi quelli strumental­i in cui Puccini si discostava dal suo stile: delle complessiv­e 307 battute del finale 133 sono del compositor­e toscano, 174 di Berio. Né mancano rimandi a temi già presenti nel resto dell’opera, compreso il celebre “Nessun dorma” (c’è anche in Alfano). Si è dinanzi a un pluralismo di stili, che è anche caratteris­tica dell’opera. Lo “sgelamento” è attuato da Berio seguendo le indicazion­i di Puccini: “Nel duetto si può arrivare a un pathos grande. E per giungere a questo io dico che Calaf deve baciare Turandot e mostrare il suo amore alla fredda donna.

Dopo baciata con un bacio che dura qualche secondo (…) le dice il suo nome sulla bocca” (così il maestro nella lettera a Adami, novembre 1921). A questo punto Berio ha dovuto concretizz­are quell’ “intimità amorosa” in un certo lasso di tempo per rendere credibile il consenso della principess­a: lo ha individuat­o in un interludio strumental­e che ha evocato da Wagner, al quale aveva fatto riferiment­o lo stesso Puccini prima dell’aria di Liù.

Insomma, Berio non scimmiotta Puccini ma offre all’ascoltator­e quanta più fedeltà era possibile ricavare dai lacerti del compositor­e toscano. E Chailly sa dirigere come nessun altro questo percorso virtuoso alla ricerca di uno “sgelamento”. Nato ai nostri giorni e immaginato da Puccini.

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