Il Sole 24 Ore

La lenta redistribu­zione del lavoro

- Alberto Orioli

Le riforme sono state avviate e segnali forti ne sono stati dati: oltre al jobs act dovrebbero servire la revisione della Pubblica amministra­zione (che proprio ieri ha avuto un primo via libera), poi l’apertura del mercato del credito con il riassetto delle popolari e delle fondazioni, i provvedime­nti per la competitiv­ità oltre alla revisione “a macchia di leopardo” dovuta ai tanti provvedime­nti sulla giustizia civile e penale. Ma il dispiegame­nto di questi “effetti sistemici” non può essere immediato e non ammette scorciatoi­e.

L’ e c onomia r e a l e s t a r e a g e ndo, ma è s oprat t ut t o i mpegnata a r i a s s or bi r e i c a s s i nt e g r a t i vi e s t a us c e ndo dai c ont r a t t i di f e nsi vi di r i duzi one di or a r i o di l a voro e di s t i pendio c on c ui s ono s t a t i s a l vat i post i di l a voro.

Solo dopo la fase di assorbimen­to degli ammortizza­tori sociali, serviti a traghettar­e le imprese sane e competitiv­e fuori dalla recessione, si potrà scommetter­e sull’ampiamento della platea dei lavoratori.

Per adesso ci si deve accontenta­re di una tendenza di lungo periodo, con andamenti ancora non costanti, che vede il travaso dal bacino della disperazio­ne e dei senza speranza – statistica­mente i cosiddetti inattivi – verso quello più reattivo e, paradossal­mente, fiducioso dei disoccupat­i in senso stretto che, comunque, un lavoro intendono cercarlo: in un anno in 140mila hanno fatto questo salto.

La “narrazione” della politica economica fatta dal Governo ci ha indotto a una velocità comunicati­va che non è quella dei dati. E, spesso, non è quella concessa dai molti vincoli di finanza pubblica ancora presenti nonostante la “benevolenz­a” di Bruxelles verso il nostro quadro macroecono­mico. Un quadro, peraltro, destinato a mutare repentinam­ente (in peggio) dopo la sentenza della Consulta sulle pensioni che ha ipotecato 5 miliardi tutti ancora da trovare, con buona pace di “tesoretti” più o meno virtuali.

Il vero “tempo reale” dell’economia mostra indizi di cambio di scenario che solo una volta consolidat­i daranno vita al ciclo positivo della nuova occupazion­e. Come è il caso della produzione industrial­e: ieri il dato anticipato­re del Centro studi Confindust­ria avverte di un + 0,5% in aprile, meglio di marzo, quando l’indice calò dello 0,1 per cento.

Sempre l’Istat ieri ha annunciato un aumento della fiducia nel settore manifattur­iero per l’ottavo mese consecutiv­o, ma molto fondato sulla domanda estera. Quella interna ancora è invariata. Ed è proprio questo il punto: la glaciazion­e di un Paese non più in grado di consumare.

Ma anche in questo caso il dato dell’inflazione mostra che qualcosa sta cambiando anche nella domanda interna grazie agli effetti, in tutta Europa, della iniezione di liquidità propiziata dalla Bce. E il costo della vita in Italia è salito dello 0,3% ad aprile su marzo.

Ciò che conta è creare un nuovo clima di fiducia per migliorare le attese e le riforme servono anche a questo. La percezione negli attori del mondo produttivo sta cambiando, lentamente, in meglio. Ed è auspicabil­e che possa servire a questo anche la suggestion­e dell’Expo.

Per ora i segnali positivi degli indicatori sono fermi allo zerovirgol­a. Così come è ancora debole l’aspettativ­a di rilancio del Pil entro fine anno, anche se in fase di consolidam­ento, come ha avvertito sempre ieri la stessa Banca d’Italia.

Se non aumenterà la velocità di uscita dalla curva della recessione, l’Italia dovrà fare i conti con altri guasti prodotti dalla crisi, primo di tutti la perdita (o lo spreco) di capitale umano.

Il meglio dei cervelli formati egregiamen­te in casa nostra ormai emigra. E l’Italia si trova stretta tra due tendenze opposte: la spinta del lavoro immigrato a bassa qualificaz­ione (crescente) che induce le imprese verso salari ridotti e ritarda il migliorame­nto tecnologic­o-competitiv­o e una richiesta di capitale umano “ad alta caratura” che risulta non reperibile sul mercato o perché non formato o perché non più disponibil­e in patria.

Un doppio paradosso che potrebbe portare la cosiddetta disoccupaz­ione fisiologic­a su livelli mai conosciuti in precedenza.

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