La lenta redistribuzione del lavoro
Le riforme sono state avviate e segnali forti ne sono stati dati: oltre al jobs act dovrebbero servire la revisione della Pubblica amministrazione (che proprio ieri ha avuto un primo via libera), poi l’apertura del mercato del credito con il riassetto delle popolari e delle fondazioni, i provvedimenti per la competitività oltre alla revisione “a macchia di leopardo” dovuta ai tanti provvedimenti sulla giustizia civile e penale. Ma il dispiegamento di questi “effetti sistemici” non può essere immediato e non ammette scorciatoie.
L’ e c onomia r e a l e s t a r e a g e ndo, ma è s oprat t ut t o i mpegnata a r i a s s or bi r e i c a s s i nt e g r a t i vi e s t a us c e ndo dai c ont r a t t i di f e nsi vi di r i duzi one di or a r i o di l a voro e di s t i pendio c on c ui s ono s t a t i s a l vat i post i di l a voro.
Solo dopo la fase di assorbimento degli ammortizzatori sociali, serviti a traghettare le imprese sane e competitive fuori dalla recessione, si potrà scommettere sull’ampiamento della platea dei lavoratori.
Per adesso ci si deve accontentare di una tendenza di lungo periodo, con andamenti ancora non costanti, che vede il travaso dal bacino della disperazione e dei senza speranza – statisticamente i cosiddetti inattivi – verso quello più reattivo e, paradossalmente, fiducioso dei disoccupati in senso stretto che, comunque, un lavoro intendono cercarlo: in un anno in 140mila hanno fatto questo salto.
La “narrazione” della politica economica fatta dal Governo ci ha indotto a una velocità comunicativa che non è quella dei dati. E, spesso, non è quella concessa dai molti vincoli di finanza pubblica ancora presenti nonostante la “benevolenza” di Bruxelles verso il nostro quadro macroeconomico. Un quadro, peraltro, destinato a mutare repentinamente (in peggio) dopo la sentenza della Consulta sulle pensioni che ha ipotecato 5 miliardi tutti ancora da trovare, con buona pace di “tesoretti” più o meno virtuali.
Il vero “tempo reale” dell’economia mostra indizi di cambio di scenario che solo una volta consolidati daranno vita al ciclo positivo della nuova occupazione. Come è il caso della produzione industriale: ieri il dato anticipatore del Centro studi Confindustria avverte di un + 0,5% in aprile, meglio di marzo, quando l’indice calò dello 0,1 per cento.
Sempre l’Istat ieri ha annunciato un aumento della fiducia nel settore manifatturiero per l’ottavo mese consecutivo, ma molto fondato sulla domanda estera. Quella interna ancora è invariata. Ed è proprio questo il punto: la glaciazione di un Paese non più in grado di consumare.
Ma anche in questo caso il dato dell’inflazione mostra che qualcosa sta cambiando anche nella domanda interna grazie agli effetti, in tutta Europa, della iniezione di liquidità propiziata dalla Bce. E il costo della vita in Italia è salito dello 0,3% ad aprile su marzo.
Ciò che conta è creare un nuovo clima di fiducia per migliorare le attese e le riforme servono anche a questo. La percezione negli attori del mondo produttivo sta cambiando, lentamente, in meglio. Ed è auspicabile che possa servire a questo anche la suggestione dell’Expo.
Per ora i segnali positivi degli indicatori sono fermi allo zerovirgola. Così come è ancora debole l’aspettativa di rilancio del Pil entro fine anno, anche se in fase di consolidamento, come ha avvertito sempre ieri la stessa Banca d’Italia.
Se non aumenterà la velocità di uscita dalla curva della recessione, l’Italia dovrà fare i conti con altri guasti prodotti dalla crisi, primo di tutti la perdita (o lo spreco) di capitale umano.
Il meglio dei cervelli formati egregiamente in casa nostra ormai emigra. E l’Italia si trova stretta tra due tendenze opposte: la spinta del lavoro immigrato a bassa qualificazione (crescente) che induce le imprese verso salari ridotti e ritarda il miglioramento tecnologico-competitivo e una richiesta di capitale umano “ad alta caratura” che risulta non reperibile sul mercato o perché non formato o perché non più disponibile in patria.
Un doppio paradosso che potrebbe portare la cosiddetta disoccupazione fisiologica su livelli mai conosciuti in precedenza.