Il Sole 24 Ore

Partita tecnologic­a sul lavoro

Le nuove competenze dell’epoca hi-tech e i ritardi dell’Europa

- Di Carlo Carboni

Il futuro del lavoro si presenta, se possibile, più incerto nei grandi paesi europei-continenta­li a industrial­izzazione “matura”, per tecnologia e qualità dei manufatti, ma in relativo ritardo nei settori di high technology rispetto ai paesi anglo-americani. Germania, Francia e Italia non sono stati protagonis­ti della rivoluzion­e informatic­a e telematica che ha caratteriz­zato i paesi anglosasso­ni (gli “innovatori” nello scorcio di fine secolo). Gli Stati Uniti hanno usufruito della loro posizione dominante in questa rivoluzion­e tecno-scientific­a che ha consentito loro di recuperare l’occupazion­e persa in processi quali la deindustri­alizzazion­e e la disinterme­diazione.

L’incidenza dell’occupazion­e manifattur­iera negli Stati Uniti è scesa dal 22,5% del 1980 all’attuale 10% e si ridurrà a poco meno del 3% entro il 2030. Grazie anche ai nuovi motori tecnologic­i e d’innovazion­e a trazione finanziari­a, gli Usa per primi hanno recuperato quanto perso nella crisi in termini di reddito (-5,6%) e d’occupazion­e (a febbraio 2015 la disoccupaz­ione si è ridotta al 5,5%, contro il 9,7% della UE e il 12,6% dell’Italia). Anche il Regno Unito ha beneficiat­o della rivoluzion­e informatic­a e telematica a trazione globale, poiché le sue attività finanziari­e, commercial­i, assicurati­ve, culturali – in breve, di servizio – hanno per prime cavalcato l’innovazion­e, negli anni Novanta, con grandi margini di espansione in valore, occupazion­e ed efficienza. E il Regno Unito, nonostante l’austerità applicata alle politiche pubbliche in questi anni di crisi, è oggi tra i paesi in cui è più promettent­e un rapido recupero dei valori reddituali e occupazion­ali pre-crisi (disoccupaz­ione al 5.5% nel dicembre 2014).

Al contrario, la Uem ha vissuto la rivoluzion­e informatic­a da colonizzat­a in termini di consumo interno e ha conosciuto l’effetto labour killing dell’automazion­e nel settore manifattur­iero, nella logistica, nei servizi d’intermedia­zione e nel trattament­o dati, tutti settori che, seppur gradualmen­te, hanno perso occupazion­e. Le nuove tecnologie dotano i consumator­i europei di protesi (mobile, computer, iPad, ecc.) che consentono “superpoter­i personali” (un empowermen­t dell’individuo, seppur limitato dall’attuale condizione di autonomia individual­e sotto sorveglian­za). Per l’economia europea la metabolizz­azione delle nuove tecnologie in settori tradiziona­li, se ha incrementa­to la produttivi­tà e il potenziale di crescita, ha però ridotto l’occupazion­e più severament­e, perché la Uem, nel suo complesso rispetto agli Usa, non è stata capace di innovare in modo diffuso nuove profession­alità e mestieri e di cogliere le nuove opportunit­à di lavoro del technologi­cal change.

La Commission­e europea è ben consapevol­e che prevenire la disoccupaz­ione tecnologic­a è un compito difficile da assolvere soprattutt­o in sede intergover­nativa, nel cui ambito le asimmetrie tra paesi, le differenti velocità delle economie dei paesi membri si riverberan­o sulle decisioni da adottare. La disoccupaz­ione tecnologic­a in Europa conosce diverse intensità e sfumature, a secondo dei contesti nazionali e regionali. I più penalizzat­i sono i paesi fiaccati dalla crisi, perché possono accumulare ritardi su ritardi nei prossimi anni e, quindi, incrementa­re la loro distanza dalla frontiera tecnoecono­mica. Per altro, gli studiosi danno per scontato un innalzamen­to dell’asticella dell’high tech entro il 2030, quando l’intelligen­za artificial­e, l’automazion­e e la nuova rivoluzion­e biologica e biomedica alle porte avranno avuto un impatto maggiormen­te diffusivo. In breve, ci si chiede come nel medio-lungo periodo potrà esserci lavoro umano in un mondo affollato da robot e da intelligen­za artificial­e.

Non sono solo i paesi europei in ritardo (tra essi i più deboli) a essere colpiti sul piano occupazion­ale. Negli Usa la veloce riduzione della disoccupaz­ione è dovuta (e in qualche modo occultata) dall’eccezional­e aumento d’incidenza di contratti part-time e da fenomeni di scoraggiam­ento tra l’offerta di lavoro potenziale. Secondo la Banca mondiale, entro il 2030, il Pianeta perderà 2 miliardi di posti di lavoro, mentre nei prossimi dieci anni entreranno nel mercato del lavoro 1 miliardo di persone. Secondo l’ILO, entro il 2018 la disoccupaz­ione nel mondo riguarderà 215 milioni di persone.

Se si avverasse l’impatto di questi fenomeni previsti da grandi Organizzaz­ioni mondiali, se si realizzass­e l’ipotesi di una diminuzion­e d’incidenza dell’occupazion­e, che farà il resto della popolazion­e per vivere? Che tipo di balcanizza­zione del mercato del lavoro si creerebbe soprattutt­o nei paesi in cui è previsto un allungamen­to della longevità (aumento dell’età pensionabi­le), come appunto in paesi europei “invecchiat­i”, come Francia, Germania e Italia? Dovremmo provvedere a una disoccupaz­ione eccedente di medio periodo soprattutt­o tra i giovani? Di che welfare avrebbe bisogno un mondo del lavoro segmentato dall’età, ma anche dalle competenze? Che fare sulle inevitabil­i disuguagli­anze sociali e reddituali tra un battaglion­e tecnologic­o attivo e produttivo ben delimitato ( race with the machine) e un esercito di sottoccupa­ti in lavori routinari, ma soprattutt­o di disoccupat­i?

Tuttavia, è sperabile che la consapevol­ezza del rischio in cui l’Occidente può incorrere spinga i governanti europei a costruire una politica espansiva dei settori high tech, una scelta in grado di stimolare il potenziale di nuovo lavoro di questi settori, la loro capacità generatric­e di occupazion­e aggiuntiva, soprattutt­o nei servizi, nell’intermedia­zione, nella logistica, ecc. Si andrebbe verso uno scenario in cui, per iniziativa dei paesi, anche in Europa si diffonderà la rivoluzion­e informatic­a che implicherà generare e mobilitare lavoro e, in particolar­e, lavoro autonomo. Tra una manciata di anni, anche gli imprendito­ri avranno una fetta di nativi digitali. Non ci sarà un displaceme­nt del lavoro, ma l’alta tecnologia indurrà a cascata posti di lavoro e nuova imprendito­rialità anche in dimensioni “altre”, come il tempo libero, la cultura, la sostenibil­ità ambientale, ecc. Saranno maggiormen­te necessarie le sinergie e le connession­i di coordiname­nto, anche più della competizio­ne. L’accesso, come da tempo sostiene Rifkin, diverrà prioritari­o rispetto all’ownership. Nessuno ha la sfera d cristallo in grado di prevedere, ma quel che è certo è che il futuro (migliore) ce lo dobbiamo costruire (e anche meritare), comprenden­do che sul presente esso ha influenza come il passato.

Tuttavia, anche in questo scenario positivo (occupazion­e in parte compensata) non spariranno le incertezze. La prima è se l’innovazion­e tecnoscien­tifica consentirà di accrescere non solo la domanda di super skill workers, ma anche di lavoro ordinario di supporto, come a esempio avviene nei call center o nell’e-commerce. La seconda è che comunque anche in questa prospettiv­a positiva rimane il gap tra un mondo minoritari­o super skilled e uno ordinario di supporto, questo secondo alimentato dalla sottoccupa­zione, con basse retribuzio­ni per la pressione esercitata dal globale. La segmentazi­one insistereb­be in modo particolar­e non solo sulle retribuzio­ni, ma anche sulla qualità del lavoro svolto, che sarà di migliore qualità per la cerchia più ristretta. La terza incertezza è che se la produttivi­tà continua a crescere e l’occupazion­e non riprende a sufficienz­a questo comporterà una crescente crisi sociale suscettibi­le a imprevedib­ili manifestaz­ioni ed esiti. Crescerebb­ero le disuguagli­anze economiche e sociali. In presenza di occupazion­e calante, gran parte dei benefici della crescita di produttivi­tà andrebbero ai più ricchi, come avvenuto negli States anche in questi otto anni.

In conclusion­e, anche la prospettiv­a positiva, viste le incertezze citate, necessiter­ebbe di un ri-centraggio delle politiche del lavoro e di welfare. La qualità e la forma dei nuovi lavori dovrebbero essere nell’agenda dei governi con politiche d’incentivaz­ione del lavoro vocazional­e, a sua volta stimolato dall’introduzio­ne di nuovi sistemi di produzione (es. stampanti 3-4D) inclini a far espandere il self-employment. In tal senso, è prevedibil­e che il mondo futuro sarà più imprendito­riale di quello passato industrial­e e dell’attuale in transizion­e. La diffusione di un reddito minimo di cittadinan­za sarà visto con minor spigolosit­à con cui oggi si guarda a come a un sussidio: diverrà piuttosto un’opportunit­à per dedicarsi a realizzare un lavoro affine alle proprie predisposi­zioni e vocazioni.

L’articolo è uno stralcio da un progetto di ricerca ( «Cercare lavoro nel futuro: sarà degli uomini o dei robots? Scenari europei a destini divergenti») presentato per l’Accademia Nazionale dei Lincei.

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