Partita tecnologica sul lavoro
Le nuove competenze dell’epoca hi-tech e i ritardi dell’Europa
Il futuro del lavoro si presenta, se possibile, più incerto nei grandi paesi europei-continentali a industrializzazione “matura”, per tecnologia e qualità dei manufatti, ma in relativo ritardo nei settori di high technology rispetto ai paesi anglo-americani. Germania, Francia e Italia non sono stati protagonisti della rivoluzione informatica e telematica che ha caratterizzato i paesi anglosassoni (gli “innovatori” nello scorcio di fine secolo). Gli Stati Uniti hanno usufruito della loro posizione dominante in questa rivoluzione tecno-scientifica che ha consentito loro di recuperare l’occupazione persa in processi quali la deindustrializzazione e la disintermediazione.
L’incidenza dell’occupazione manifatturiera negli Stati Uniti è scesa dal 22,5% del 1980 all’attuale 10% e si ridurrà a poco meno del 3% entro il 2030. Grazie anche ai nuovi motori tecnologici e d’innovazione a trazione finanziaria, gli Usa per primi hanno recuperato quanto perso nella crisi in termini di reddito (-5,6%) e d’occupazione (a febbraio 2015 la disoccupazione si è ridotta al 5,5%, contro il 9,7% della UE e il 12,6% dell’Italia). Anche il Regno Unito ha beneficiato della rivoluzione informatica e telematica a trazione globale, poiché le sue attività finanziarie, commerciali, assicurative, culturali – in breve, di servizio – hanno per prime cavalcato l’innovazione, negli anni Novanta, con grandi margini di espansione in valore, occupazione ed efficienza. E il Regno Unito, nonostante l’austerità applicata alle politiche pubbliche in questi anni di crisi, è oggi tra i paesi in cui è più promettente un rapido recupero dei valori reddituali e occupazionali pre-crisi (disoccupazione al 5.5% nel dicembre 2014).
Al contrario, la Uem ha vissuto la rivoluzione informatica da colonizzata in termini di consumo interno e ha conosciuto l’effetto labour killing dell’automazione nel settore manifatturiero, nella logistica, nei servizi d’intermediazione e nel trattamento dati, tutti settori che, seppur gradualmente, hanno perso occupazione. Le nuove tecnologie dotano i consumatori europei di protesi (mobile, computer, iPad, ecc.) che consentono “superpoteri personali” (un empowerment dell’individuo, seppur limitato dall’attuale condizione di autonomia individuale sotto sorveglianza). Per l’economia europea la metabolizzazione delle nuove tecnologie in settori tradizionali, se ha incrementato la produttività e il potenziale di crescita, ha però ridotto l’occupazione più severamente, perché la Uem, nel suo complesso rispetto agli Usa, non è stata capace di innovare in modo diffuso nuove professionalità e mestieri e di cogliere le nuove opportunità di lavoro del technological change.
La Commissione europea è ben consapevole che prevenire la disoccupazione tecnologica è un compito difficile da assolvere soprattutto in sede intergovernativa, nel cui ambito le asimmetrie tra paesi, le differenti velocità delle economie dei paesi membri si riverberano sulle decisioni da adottare. La disoccupazione tecnologica in Europa conosce diverse intensità e sfumature, a secondo dei contesti nazionali e regionali. I più penalizzati sono i paesi fiaccati dalla crisi, perché possono accumulare ritardi su ritardi nei prossimi anni e, quindi, incrementare la loro distanza dalla frontiera tecnoeconomica. Per altro, gli studiosi danno per scontato un innalzamento dell’asticella dell’high tech entro il 2030, quando l’intelligenza artificiale, l’automazione e la nuova rivoluzione biologica e biomedica alle porte avranno avuto un impatto maggiormente diffusivo. In breve, ci si chiede come nel medio-lungo periodo potrà esserci lavoro umano in un mondo affollato da robot e da intelligenza artificiale.
Non sono solo i paesi europei in ritardo (tra essi i più deboli) a essere colpiti sul piano occupazionale. Negli Usa la veloce riduzione della disoccupazione è dovuta (e in qualche modo occultata) dall’eccezionale aumento d’incidenza di contratti part-time e da fenomeni di scoraggiamento tra l’offerta di lavoro potenziale. Secondo la Banca mondiale, entro il 2030, il Pianeta perderà 2 miliardi di posti di lavoro, mentre nei prossimi dieci anni entreranno nel mercato del lavoro 1 miliardo di persone. Secondo l’ILO, entro il 2018 la disoccupazione nel mondo riguarderà 215 milioni di persone.
Se si avverasse l’impatto di questi fenomeni previsti da grandi Organizzazioni mondiali, se si realizzasse l’ipotesi di una diminuzione d’incidenza dell’occupazione, che farà il resto della popolazione per vivere? Che tipo di balcanizzazione del mercato del lavoro si creerebbe soprattutto nei paesi in cui è previsto un allungamento della longevità (aumento dell’età pensionabile), come appunto in paesi europei “invecchiati”, come Francia, Germania e Italia? Dovremmo provvedere a una disoccupazione eccedente di medio periodo soprattutto tra i giovani? Di che welfare avrebbe bisogno un mondo del lavoro segmentato dall’età, ma anche dalle competenze? Che fare sulle inevitabili disuguaglianze sociali e reddituali tra un battaglione tecnologico attivo e produttivo ben delimitato ( race with the machine) e un esercito di sottoccupati in lavori routinari, ma soprattutto di disoccupati?
Tuttavia, è sperabile che la consapevolezza del rischio in cui l’Occidente può incorrere spinga i governanti europei a costruire una politica espansiva dei settori high tech, una scelta in grado di stimolare il potenziale di nuovo lavoro di questi settori, la loro capacità generatrice di occupazione aggiuntiva, soprattutto nei servizi, nell’intermediazione, nella logistica, ecc. Si andrebbe verso uno scenario in cui, per iniziativa dei paesi, anche in Europa si diffonderà la rivoluzione informatica che implicherà generare e mobilitare lavoro e, in particolare, lavoro autonomo. Tra una manciata di anni, anche gli imprenditori avranno una fetta di nativi digitali. Non ci sarà un displacement del lavoro, ma l’alta tecnologia indurrà a cascata posti di lavoro e nuova imprenditorialità anche in dimensioni “altre”, come il tempo libero, la cultura, la sostenibilità ambientale, ecc. Saranno maggiormente necessarie le sinergie e le connessioni di coordinamento, anche più della competizione. L’accesso, come da tempo sostiene Rifkin, diverrà prioritario rispetto all’ownership. Nessuno ha la sfera d cristallo in grado di prevedere, ma quel che è certo è che il futuro (migliore) ce lo dobbiamo costruire (e anche meritare), comprendendo che sul presente esso ha influenza come il passato.
Tuttavia, anche in questo scenario positivo (occupazione in parte compensata) non spariranno le incertezze. La prima è se l’innovazione tecnoscientifica consentirà di accrescere non solo la domanda di super skill workers, ma anche di lavoro ordinario di supporto, come a esempio avviene nei call center o nell’e-commerce. La seconda è che comunque anche in questa prospettiva positiva rimane il gap tra un mondo minoritario super skilled e uno ordinario di supporto, questo secondo alimentato dalla sottoccupazione, con basse retribuzioni per la pressione esercitata dal globale. La segmentazione insisterebbe in modo particolare non solo sulle retribuzioni, ma anche sulla qualità del lavoro svolto, che sarà di migliore qualità per la cerchia più ristretta. La terza incertezza è che se la produttività continua a crescere e l’occupazione non riprende a sufficienza questo comporterà una crescente crisi sociale suscettibile a imprevedibili manifestazioni ed esiti. Crescerebbero le disuguaglianze economiche e sociali. In presenza di occupazione calante, gran parte dei benefici della crescita di produttività andrebbero ai più ricchi, come avvenuto negli States anche in questi otto anni.
In conclusione, anche la prospettiva positiva, viste le incertezze citate, necessiterebbe di un ri-centraggio delle politiche del lavoro e di welfare. La qualità e la forma dei nuovi lavori dovrebbero essere nell’agenda dei governi con politiche d’incentivazione del lavoro vocazionale, a sua volta stimolato dall’introduzione di nuovi sistemi di produzione (es. stampanti 3-4D) inclini a far espandere il self-employment. In tal senso, è prevedibile che il mondo futuro sarà più imprenditoriale di quello passato industriale e dell’attuale in transizione. La diffusione di un reddito minimo di cittadinanza sarà visto con minor spigolosità con cui oggi si guarda a come a un sussidio: diverrà piuttosto un’opportunità per dedicarsi a realizzare un lavoro affine alle proprie predisposizioni e vocazioni.
L’articolo è uno stralcio da un progetto di ricerca ( «Cercare lavoro nel futuro: sarà degli uomini o dei robots? Scenari europei a destini divergenti») presentato per l’Accademia Nazionale dei Lincei.