Nel desiderio di riscatto cultura civica e industriale
Il pragmatismo umile e silenzioso della Milano più autentica è composto dagli stessi ingredienti da cui è formato lo spirito imprenditoriale italiano. A poche ore dallo scempio compiuto nelle nostre strade dal nichilismo analfabeta e antimoderno, i milanesi hanno incominciato – senza aspettare nessuno - a ripulire da soli le lordure e il nero degli incendi.
Nella solitudine di questo senso civico – al massimo “comunitario” e, forse, poco “statuale” – c’è la medesima cifra che caratterizza – nei suoi limiti ma soprattutto nei suoi punti di forza – la cultura industriale del nostro Paese: il destino dell’individualismo – diluito nella forma minima del capitalismo familiare e strutturato razionalmente nei meccanismi della rappresentanza – proiettato in una dimensione economica internazionale che lo dovrebbe distruggere e che, invece, per una qualche strana ragione sempre lo accoglie, spesso lo valorizza e qualche volta lo esalta.
Quella strana ragione è la stessa che spinge gli abitanti di Corso Magenta a rimediare allo sconcio della violenza: un senso di riscatto permanente, che nei giorni della quiete si esprime nella laboriosità e nei giorni della fatica si coagula nella voglia di farcela. È una dimensione dell’esistenza, che segna quella dell’impresa. Esistono punti di svolta. Spesso sanno di amaro. E sta agli uomini trasformare in dolce il retrogusto in bocca. Expo 2015, con tutte le sue ammaccature giudiziarie e tutti i suoi ritardi organizzativi, è partito. Il potenziale economico che un suo successo potrebbe sviluppare è significativo sotto il profilo quantitativo e impagabile nella dimensione psicologica.
Nessuno, in Italia, vuole un destino argentino, fatto di un declino inarrestabile. Tutti desideriamo un riscatto irlandese, con gli indicatori economici che mostrano la fine del cattivo tempo. Chi, venerdì, si è permesso di scatenare il temporale sulla città di Leonardo da Vinci, di Dino Buzzati, di Raffaele Mattioli e di Giorgio Armani nulla sa di Milano e del suo valore simbolico e concretissimo per tutto il Paese. Leonardo era del contado fiorentino. Buzzati di San Pellegrino di Belluno. Mattioli di Vasto. Armani è di Piacenza.
Milano è nella storia italiana il luogo della sintesi, che accoglie il meglio di chi e di che cosa siamo e lo propone al mondo. È così dal Medioevo. È così adesso. Gli occhi degli operai dei cantieri dell’Expo, i veri protagonisti dell'inaugurazione, come ha ricordato venerdì Papa Francesco. Lo sguardo non sottomesso dei negozianti di Via Carducci, che alle prime luci di sabato iniziano a sistemare le vetrate infrante. La voglia di farcela – beneficamente ossessiva – dei piccoli imprenditori italiani che all’Expo, fin dalle prime ore, cercano di parlare con i manager delle multinazionali del food. Sono gli stessi, questi piccoli imprenditori, che negli ultimi giorni hanno contribuito a fare emergere, per il sistema industriale italiano nel suo complesso, alcuni segnali positivi. Per l’Istat, a marzo il commercio extra Ue – storico tallone d’Achille, per una imprenditoria italiana strutturalmente assai focalizzata sull’Unione Europea – è cresciuto del 13,2% rispetto allo stesso mese del 2013; i beni strumentali – per esempio – sono saliti addirittura del 17,5 per cento. L’ultima indagine rapida del Centro Studi Confindustria ha evidenziato come ad aprile la produzione industriale sia cresciuta dell’1% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e ha ricordato che l’indicatore Istat sulla fiducia del manifatturiero ha segnalato un miglioramento per l’ottavo mese consecutivo, attestandosi a 104,1 punti (in aumento di 0,4 punti). A livello macroeconomico il bollettino della Bce ha infine sottolineato come si sia bloccato il processo deflattivo.
Nell’eterno autolesionismo retorico italiano, spesso si trascura la sostanza di cui è fatta la sua – la nostra – anima, insieme popolare e nobile: il desiderio di riscatto. A Milano è successo qualcosa.