Tutti i saperi in un’idea di Teatro
A| Alcune immagini tratte dal volume «L’idea di theatro» di Giulio Camillo (1480-1544). Da sinistra, «Giunone sospesa» di Correggio, «Artificiosa Rota», «Allegoria della sapienza» di Tiziano lla fine, nell’ultimo canto dell’Orlando furioso, la nave del poema arriva in porto e l’Ariosto trova ad aspettarlo, sulla riva, una folta schiera di dame e cavalieri, di principi e poeti. Sono i suoi lettori ideali, una specie di foto di gruppo della république des lettres che, come sempre capita, scatena le ire di chi non vi è incluso. Fra questi, Niccolò Machiavelli, che esprime il suo disappunto in modo colorito (m’ha «lasciato indreto come un cazo»), un disappunto reso più acuto dall’ammirazione che prova per il poema. È straniante per noi, che guardiamo a quella folla che si accalca sulla riva dalla distanza dei secoli, non trovare Machiavelli e trovare invece un personaggio che sarebbe stato a lungo dimenticato e disprezzato, Giulio Camillo: E quei che per guidarci ai rivi ascrei mostra piano e più breve altro camino, Iulio Camillo. ( Orlando Furioso, 46,12,5-7) Chi era dunque questo Camillo, al quale Ariosto (non si sa con quanta convinzione) riconosce una specie di ricetta magica, quella che insegna la via breve e facile al comporre poesia?
Il nostro eroe nasce nella «patria del Friuli», verso il 1480 e muore a Milano nel 1544, protetto dal governatore spagnolo Alfonso d’Avalos, che, come prima di lui il re di Francia Francesco I, si era fatto incantare dalle sue promesse. Camillo era infatti un oratore straordinario. Malgrado la balbuzie e un corpo a dir poco imponente, sapeva trascinare l’animo di chi lo ascoltava con la sua foga da uomo ispirato.
Camillo inizia la sua carriera come letterato, come maestro di retorica e di poesia. È bravissimo a commentare i poeti, Petrarca e Virgilio in particolare, ma anche i grandi oratori come Cicerone. Partecipa, col suo amico Pietro Bembo, al tentativo di costruire i modelli per la nuova letteratura, in latino e in volgare. Ma tutto questo non gli basta. Girando tra Venezia, Padova, Bologna, Roma, si appassiona agli esperimenti di anatomia, e comincia a pensare che qualcosa di simile si possa fare anche per la poesia. Sul tavolo del teatro anatomico l’occhio penetra al di là della carne, fino a vedere la struttura che regge il corpo. Così, pensa Camillo, si può fare per i grandi testi della letteratura: si possono analizzare fino a scoprire l’interna struttura, fino a portare alla luce il segreto della loro bellezza. Come l’alchimista crea nel suo laboratorio l’homunculus, così è possibile ridare vita alla bellezza delle opere d’arte. A questa “anatomia” dei grandi testi Camillo dedica per anni tempo, fatiche, denari, così come al progetto in cui i risultati di quella anatomia dovevano trovar luogo: un grande teatro della memoria, basato sulle sette colonne dei pianeti, in cui centinaia di immagini (dipinte dai suoi amici pittori, fra cui Tiziano) dovevano aiutare l’utente a ricordare e a ridar vita al tesoro di sapienza e di bellezza che lì era stato collocato. L’antica sapienza ermetica, la tradizione cabalistica, la nuova straordinaria stagione che le arti stavano vivendo: tutto viene mobilitato per questo progetto per il quale Camillo viaggia per l’Europa, alla ricerca di sponsors, e viene esaltato come uo- mo divino, o disprezzato come un ciarlatano. Ma proprio qui sta il motivo del fascino che tuttora esercita: a lui si ispirano romanzi, progetti di video arte e il suo nome è popolare in internet. Forse proprio oggi, col trionfo della memoria artificiale, siamo in grado di capirlo e di apprezzarlo.
Quando Camillo muore, ha pubblicato ben poco e il suo progetto faustiano, l’oggetto della sua quête ossessiva, è misteriosamente sparito. A sei anni di distanza, nel 1550, viene pubblicata l’Idea del theatro, che appare come l’ombra, quasi il fantasma dell’opus definitivo. Tanto che molti ne hanno messo in discussione la reale esistenza. Ma l’appassio- nante scoperta di manoscritti sconosciuti ha permesso di delineare un quadro nuovo.
A partire dall’Idea del theatro, e da quel che si dice su di lui, abbiamo provato a dar fiducia a Giulio Camillo, per cercare di capire su quali fondamenti ha tentato di costruire il suo Teatro, a quali miti e bisogni ha inteso dar vita. Per certi aspetti, per tutta la vita, Camillo insegue il suo sogno, e scrive sempre la stessa opera, o meglio ridisegna via via quel che ha scritto e pensato in modo tale da far tutto convergere verso la difesa, la costruzione del Teatro. Tra metafisica e artificio, tra la costruzione di una mente artificiale e la diabolica tentazione di impadronirsi della forza creatrice di Dio: in questo territorio di mezzo si situa il Teatro. I suoi segreti, come ci mostrano i testi inediti da noi recuperati, sono la possibilità di catturare l’idea (dell’eloquenza, ma anche di tutte le arti) e di guidare la mente umana a compiere le tre grandi arti della metamorfosi, quelle che agiscono sulle parole (l’eloquenza), sulle cose (l’alchimia), sulla mente stessa (la deificazione).
Non solo il Teatro che promette di essere utile a tutti gli uomini, a cominciare dai giovani studenti, nasconde dei segreti accessibili a pochi eletti, ma la sua stessa natura resta incerta (libro, edificio, maquette di legno, modello puramente mentale) e incerta, tragicamente incompiuta appare la tradizione testuale che ce lo trasmette. Grazie ai manoscritti venuti alla luce, vediamo che l’Idea del theatro si inserisce in una vera e propria galassia di testi, in cui il modello enciclopedico si dilata, si articola in più direzioni.
Ma le metamorfosi non finiscono qui. Il Teatro di Camillo, quello non ancora ritrovato, oggetto di desiderio per generazioni, ricompare sulla scena per frammenti, e sotto un volto diverso: un palazzo di invenzioni, un edificio vero e\o immaginato ornato di immagini complesse e fantastiche, che delineano un percorso morale.
Abbiamo ripercorso la vicenda davvero indiavolata di plagi e riscritture che vede coinvolti l’onesto Orazio Toscanella, maestro di scuola, autore di un commento all’Orlando Furioso e il meno credibile Anton Francesco Doni, il quale però, per una volta, appare vittima di un plagio: viene spacciato come Teatro di Camillo un testo molto vicino alle sue Pitture. È per noi affascinante, al di là di chi ha copiato chi, pensare a quante frontiere di generi il testo ha attraversato: Doni lo usa per dar corpo a delle “invenzioni”, alla costruzione di immagini bizzarre e fantasiose che possono essere soltanto chimere, trovare spazio nella pagina stampata, oppure anche nei luoghi di un edificio.
Toscanella usa alcune di quelle “invenzioni” per commentare l’Orlando Furioso: i personaggi del poema, le loro vicende scorrono davanti a noi per bloccarsi d’improvviso in una scena carica di insegnamento morale, per generare immagini allegoriche. Il poema si trasforma così in una galleria di immagini che aiutano a ricordare i modi in cui si possono rappresentare le passioni e le componenti di base della vita, come l’amore e il sogno, la fortuna e la morte. È proprio per questo che Toscanella può citare i passi che, egli crede, provengono dal Teatro della memoria di Giulio Camillo. La nostra storia di plagi e riscritture ci introduce così nel cuore del ruolo delle immagini nel Cinquecento, della loro capacità di attraversare luoghi diversi: la mente del lettore che legge un poema e lo visualizza, i teatri della memoria, i palazzi e le collezioni, reali o immaginari, e naturalmente la biblioteca: una straordinaria sperimentazione del potere delle immagini.