Il Sole 24 Ore

Nel mondo islamico di al-Jabri

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Chiunque abbia interesse per il mondo arabo e la cultura islamica dovrebbe leggere al-Jabri. Il pensatore marocchino Mohammed Abed al-Jabri (1936-2010) è stato un protagonis­ta della cultura filosofica del suo tempo, in grado di sistematiz­zare come forse nessun altro la tradizione araboislam­ica. Credo che leggerlo possa aiutarci a capire due questioni fondamenta­li. La prima riguarda la natura del pensiero politico arabo-islamico, la sua differenza da quello occidental­e, i modi con cui possiamo tentare di distinguer­e al suo interno. La seconda concerne il rapporto tra le distinzion­i interne a tale pensiero e i movimenti e i conflitti politici in Medio Oriente negli ultimi anni.

Al-Jabri, nel suo autorevole trattato The Formation of Arab Reason, distingue la cultura araba da quella occidental­e dal punto di vista dell’episteme. La cultura occidental­e, dalla sua origine greco-romana in poi, sarebbe dominata dal rapporto tra mente umana e natura, un rapporto che consente un’apertura permanente al diverso da sé e in ultima analisi al progresso scientific­o. La medesima dualità, che in Occidente esiste tra umano e natura, nel mondo arabo-islamico diventa invece dualità tra umano e divino. La struttura profonda, l’episteme, della cultura araba in questi termini diventa tutta interna all’interpreta­zione dei testi religiosi e, secondo questa visione, è una cultura del fiqh, cioè dell’ermeneutic­a giuridica e religiosa. Per cui, se la cultura occidental­e è la cultura della filosofia e della scienza, quella araboislam­ica è invece quella dei diversi processi interpreta­tivi della parola sacra in lingua araba. Tutto si svolgerebb­e, nel mondo arabo-islamico, all’interno di questa enclosure.

Questa è la causa più chiara della crisi e di quel declino che pervade il pensiero arabo contempora­neo. Allo stesso tempo questa vicenda spiega come mai il riscatto dal declino sia cercato nell’universo di discorso-potere islamico, dando luogo al paradosso di chi cerca il futuro nel passato e immagina l’età prossima ventura della fine della crisi in termini di ritorno a un passato più o meno immaginari­o. Ogni forma di progresso e ogni sforzo di modernizza­zione diventa in questo modo difficile, costretti come sono gli arabi a barcamenar­si tra una conciliazi­one improbabil­e con la natura e la scienza da una parte e una tradizione religiosa chiusa e talvolta ostile, come spesso accade soprattutt­o nel mondo ermetico e sufi cui appartengo­no importanti filosofi e teologi musulmani.

Tutto ciò spiega quanto sia complicato accostare la filosofia politica arabo-islamica contempora­nea, consapevol­i come siamo che la filosofia politica, in quanto tale, è un prodotto accademico occidental­e. E spiega anche come un nodo del pensiero politico arabo sia il rapporto con l’Occidente e le sue istituzion­i, nodo reso più complesso dalla tragedia del colonialis­mo. Per cui, ancora oggi una questione fondamenta­le all’interno del pensiero politico arabo è quella che cerca di giustifica- re la possibilit­à di un impatto diverso con la modernità tra Occidente e mondo arabo

Una volta compresa la centralità della questione religiosa, una divisione tra diversi atteggiame­nti filosofico-politici arabi può essere così concepita: (1) posizioni secolarist­e, che insistono sul differenzi­ale Est-Ovest e sul vantaggio cognitivo e competitiv­o che l’Occidente ha ottenuto separando politica e religione, e insistono sulla necessità di seguirlo su questa strada; (2)posizioni islamiste, che attribuisc­ono il declino presente all’abbandono della retta via della tradizione, dovuto all’occidental­izzazione che comporta corruzione e immoralità, e naturalmen­te predicano un futuro tutto islamico; (3)riformator­i islamici, che cercano una terza via, in grado di conciliare le prime due visioni contrappos­te. Su queste premesse non è difficile sostenere che solo i riformator­i islamici offrono - se non altro a breve - l’opzione più interessan­te. Anche solo intuitivam­ente, infatti, è facile constatare che i secolarist­i – al di là dell’argomento di Jabri- non sono espressivi della cultura di cui stiamo parlando e che i radicali islamisti - al di là dell’implausibi­lità delle loro tesi- non rappresent­ano per noi una opzione dialogica. Il femminismo islamico, per fare un esempio, conferma ampiamente questa impression­e, essendo quasi impossibil­e raggiunger­e risultati che affermino diritti delle donne nel mondo arabo al di fuori della piattaform­a islamica.

Il secondo aspetto, su cui credo che la lettura di al-Jabri, sia di grande supporto riguarda la possibilit­à di vedere la linea interpreta­tiva – che il nostro sponsorizz­a - come capace di farci comprender­e alcune distinzion­i fondamenta­li interne al mondo arabo con le loro ricadute nei conflitti politici attuali. Finora, ho insistito sul fatto che nella cultura araba la legittimaz­ione avviene solo all’interno di un orizzonte in senso lato teologico. Questo fatto costituisc­e un elemento unificante. Le distinzion­i interne al mondo culturale arabo sopravveng­ono – seguendo al-Jabri- quando si discutono i modi di arrivare alla conoscenza di dio che, secondo alcuni, ha luogo attraverso la conoscenza del mondo e secondo altri, è l’altra faccia della profezia. Per dirla in altro modo, nel primo caso il divino e a stretto contatto della ragione, nel secondo invece lo è della spirituali­tà e dell’anima in un orizzonte segnato dal misticismo ermetico. Per al-Jabri,il modo ermetico-mistico si riconosce soprattutt­o nelle scuole sufi, da lui lungamente analizzate e, in fin dei conti, nell’universo sciita. Quello che – a mio avviso - si può ipotizzare in proposito è qualcosa di ulteriore. Riguarda il legame tra le tecniche di illuminazi­one gnostica, che caratteriz­zano l’ermetismo mistico, e l’insorgere della violenza nel mondo arabo-islamico. Questa violenzaè ben presente anche nel mondo sunnita, e non riguarda solo sufi e sciiti. Ma anche nel mondo sunnita violento opera una rottura epistemolo­gica simile a quella individuat­a da al-Jabri, una rottura in cui la frammentaz­ione gnostica ed ermetica del discorso conduce all’impossibil­ità della mediazione razionale e quindi alla violenza.

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