Il rifugio di Leonard Woolf
Se ne scrive perché lo abitò una scrittrice celebre, ma il vero artefice del giardino di Monk’s House è stato Leonard Woolf, suo marito, a partire dal momento i n cui, i n un giorno d’estate del 1919, sventò l’intento di Virginia di acquistare, anziché la casa di Rodmell, in Sussex, una proprietà ai piedi delle Downs, però strizzata in un vicolo di Lewes e priva di terreno. Il nipote di Leonard, Cecil, all’epoca uno scolaretto, ricorda la visita prima della Seconda guerra mondiale, nel 1936: un cigolante cancello di legno, un branco di cani festosi e scalmanati, lo zio che gli viene incontro dalla serra, magro, abbronzato, chioma argentea, testa scolpita da profeta biblico, pipa in mano, e appollaiata sulla spalla Mitzi, uno uistitì – scimmietta minuscola non più grande di un topolino e gelosissima –. La passione di Leonard per trafficare tra le piante era nata nella flora generosa dell’allora Ceylon nel settennio che vi aveva trascorso da amministratore coloniale.
Diversamente da quello dei SackvilleWest, sontuoso e formale, quello dei Woolf appariva più spontaneo, “naturale”. A Leonard era piaciuto a prima vista già così com’era: un bel frutteto, per il resto una specie di patchwork di alberi, arbusti, fiori, ortaggi, rose e crochi che si confondevano tra i cavoli e i cespugli di ribes. Ne fece la sua passione dominante: ogni pretesto era buono per sgattaiolare all’aria aperta. Anche Virginia mostrò all’inizio un certo fervore, al punto di scrivere che la felicità fosse una giornata passata a strappare erbacce, ma poi prese a passare sempre più tempo nello studio ricavato in un angolo del frutteto; agli amici scriveva che lei in giardino non muoveva un dito, limitandosi a passeggiare all’ombra degli alberi senza riuscire a ricordarne i nomi. Intanto Leonard pota, zappetta, cattura uno sciame di api aiutato dal fedele ancorché burbero Percy, si appassiona alla produzione di miele, pianta astri, zinnie, geum, nasturzi, tutti vivaci, coloratissimi, immensi: pareva che a lui i fiori venissero più grandi che a chiunque altro.
Se coltivare era per Leonard anche un’attività economica – vendeva frutta e ortaggi al mercato del Women’s Institute, e qualche mela la regalava ai ragazzi perché non venissero a rubargliele – per Virginia il giardino era il luogo dove placare i nervi nei periodi di malattia e depressione. Finché nel 1941 – in piena guerra, con gli aerei tedeschi che rombavano bassi su Monk’s House e lei che si buttava a faccia in giù nell’erba – si tolse la vita saltando nel fiume Ouse, le tasche piene di pietre. Leonard continuò in quello che considerava il suo rifugio dalla barbarie, spesso in compagnia dell’amata Trekkie equamente – e platonicamente – condivisa col marito di lei, Ian Parsons, il direttore della Chatto&Windus. Anche in Israele, torna col pensiero alle sue occupazioni di giardiniere: l’energia delle strade di Tel Aviv gli ricorda il ronzio frenetico delle api nell’arnia. Nel 1968, un anno prima di morire, vinse coi prodotti dell’orto sei premi. Un giorno lamentò dei capogiri. Il medico gli consiglio riposo; quando tornò a visitarlo, due giorni dopo, lo trovò in cima a una scala intento a potare: arriva tardi, gli disse soddisfattissimo Leonard.
C’è chi esprime l’amore per la natura con un corpo a corpo operoso con la terra, e chi preferisce godere della flora spontanea in cui ha la ventura d’imbattersi; in Nativa dei
| Il busto di Leonard Woolf nel giardino di Monk’s House prati Elisa Tomat risolve la dicotomia insegnando l’arte per niente facile di coltivare dove decidiamo noi quelle erbe e fiori spontanei che nel marzo del 1904, equipaggiato di vascolo e vanghetta, Piero Calamandrei, allora alunno del Regio Liceo Ginnasio Michelangiolo, prese a cercare per l’erbario. Il compito lo appassionò al punto di continuare a erborizzare fino all’autunno, restando grato tutta la vita al professore di storia naturale per la consolante e pacata serenità appresa in quelle passeggiate. Non solo: emulando gli Etruschi, antichi abitatori di quelle terre, che venivano sepolti in compagnia di qualche loro suppellettile, il giurista avrebbe voluto venire inumato insieme ai 223 fogli della sua collezione.
Nella confusione seguita alla morte inaspettata, nel 1956, dopo una normale operazione di routine, questo suo desiderio fu dimenticato. Non sarebbero altrimenti arrivati fino a noi i tre fascicoli di horti sicci, raccolto delle escursioni al Parco delle Cascine e sui colli fiorentini, da Fiesole ai Bosconi, nei dintorni di Montepulciano, lungo gli argini di fiumi come l’Ema, il Mugnano, il Mensola, l’Affrico, l’Arno, il Greve. Nel suo capolavoro, Inventario della casa di campagna, scritto fra il 1939 e il 1941 nella villa in stile modernista che si era fatto costruire alla Marina del Poveromo, Calamandrei ricorda quei fogli tarlati, classificati per famiglie vegetali sotto copertine gialle chiazzate di umidità, con quelle stin- te mummie di fiori, diafane teste reclinate e rametti scheletrici tenuti fermi da striscioline di carta ingommata, e riconosce di dovere loro quel po’ di scienza botanica che lo ha poi aiutato a ritrovare, durante le escursioni in campagna, i suoi amici eternamente giovani: le orchidee, da lui soprannominate calabroni vegetali per il riuscito mimetismo di questi fiori che, privi di polline, non attirerebbero impollinatori, la Vallisneria spiralis, pianticella palustre radicata nel fondo degli stagni dove si rifugia d’inverno per poi, a primavera, con le movenze a spirale dello stelo, riaffiorare alla superficie dove diventa una distesa fiorita, e in cui Calamandrei, tra i nostri padri costituenti e fautore di un’educazione pubblica di alto livello, vedeva una metafora dell’ascesa sociale in regime di meritocrazia.