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Era il 1967, qualche istante prima del Diluvio culturale che ha ridisegnato il mondo, come lo conosciamo. Roberto Leydi, l’esploratore del gioco e dell’utopia, ha un’idea: raccontare al Paese la vitalità di una musica altra, rurale, popolare e autentica, portandola per la prima volta in teatro. Lasciando fuori – nelle strade – le parole d’ordine della lotta di classe, esibite invece nelle ricognizioni musicali dei colleghi del Cantacronache e del Nuovo canzoniere italiano.
Così, con la complicità di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, mette in scena, senza mediazione, otto ensemble popolari in rappresentanza di sei regioni italiane, dai Tenores di Orgosolo ai Cantori di Carpino. Un presepe vivente di esperienze raccolte direttamente dalle piazze di paese e dai sagrati delle chiese. Quegli uomini, esibiti con coraggio, erano reperti viventi e mostrarono alla borghesia milanese una nuova pagina della memoria del Paese. Con suoni e visi che cominciavano, per la prima volta, a raccontarci un’altra storia, un’altra musica (questo il titolo del principale studio di Leydi, del 1991). Quella musica, levandosi di fronte a una platea, presa in prestito, sottratta ai riti delle comunità e alla quotidianità di campi, diventò per una sera, con la giusta attitudine al gioco e all’utopia, musica “classica”, epica orale.
È questa l’avventura che Domenico Ferraro, storico della filosofia moderna e coordinatore della Rete degli Archivi sonori, racconta ora, con una curiosa mostra su quella che fu la prima vera living performance di musica popolare nel nostro Paese e con una preziosa monografia sul meno ortodosso dei nostri musicologi (nel volume anche le fotografie inedite di Ciminaghi e Negrin e il cd e il dvd dell’evento), il manifesto di una ossessione puntuale per la restituzione tout court delle culture musicali minoritarie, che qui si rivelano nella loro cruda e delicata bellezza, spogliate degli abiti simbolici e ideologici.
Il volume è anche il memoir di un evento che conserva l’urgenza della passione. Di questo ricercatore laico, atipico osservatore del contempora- neo, studioso di culture popolari, cabaret, fumetti e storia sociale, Umberto Eco scrisse parole semplici e definitive: «Trovava sempre nuovi territori da esplorare». La mappa dell’esplorazione è tutta nella mostra multimediale, sempre a cura di Ferraro, Roberto Leydi e il Sentite buona gente, allestita fino al 17 maggio nelle sale del Museo degli strumenti musicali, all’Auditorium parco della musica di Roma.
La mostra segue il viaggio del libro, segnando tutte le tappe del Sentite buona gente, dalle ricognizioni sul campo agli allestimenti, ai colloqui con i protagonisti, tra cui conversazioni inedite con l’amico e collega Diego Carpitella. L’esposizione, oltre a essere multimediale, è anche vivente. Qui, giovedì prossimo, Ferraro presenterà l’omaggio a Leydi, insieme a Furio Colombo, ai Tenores di Orgosolo (figli e nipoti di quelli del ’67) e a Bruno Pianta, principale collaboratore di Roberto Leydi, l’antropologo dell’altra musica che ha cercato miti da trasmettere là dove altri vedevano semplici favole da raccontare.
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