Eni al top per il ritorno agli azionisti
Il confronto tra le performance delle major del petrolio a fronte del calo dei prezzi dell’oro nero Le azioni del gruppo italiano sono le uniche del comparto a garantire un rendimento positivo (+2,5%)
Dall’inizio dell’anno a oggi, il titolo Eni ha performato meglio dei concorrenti, garantendo agli azionisti un ritorno complessivo di segno positivo (+2.5%) ri- spetto ad altri: chi ha investito nel gruppo ha guadagnato un 20% in più di quanti hanno puntato sulle major inglesi o americane.
pI numeri li ha messi nero su bianco l’agenzia Bloomberg che ha monitorato in questi mesi le performance borsistiche dei big del settore e l’effetto dei dividendi corrisposti dalle stesse, da gennaio a oggi, consentendo così di misurare il ritorno complessivo assicurato dalle major oil ai propri azionisti (il cosidetto Tsr, total shareholder return) in uno scenario che, complici un prezzo del petrolio che non accenna per ora a risalire la china e la pesante congiuntura che si è abbattuta anche su questo comparto, si è estre- mamente deteriorato.
Dal confronto emerge chiaramente che l’Eni è l’unica società ad aver garantito un rendimento positivo (+ 2,5% dall’inizio dell’anno a ieri, ultimo dato rilevato), mentre gli altri colossi del calibro di Total, Bp, Shell, per non parlare degli omologhi americani ( Chevron su tutti), perdevano terreno ( si va dal -1,3% di Tsr per i francesi al - 29,2% di Chevron e al - 31,7% della spagnola Repsol, passando per il -19% di Shell o Exxon Mobil). Come dire, che chi ha scelto di puntare sul gruppo guidato da Claudio Descalzi, e non sui con- correnti, ha in sostanza incamerato, in un periodo decisamente nero per tutto il settore, un 20% circa in più di guadagno rispetto a coloro che hanno investito nelle major inglesi o americane. L’Eni ha quindi performato meglio delle sue colleghe in un contesto che, come detto, è caratterizzato da tinte assai fosche e che ha imposto a tutti la necessità di una sterzata decisa e di un riposizionamento strategico. A differenza delle altre, però, che hanno finora rinviato le scelte più dolorose, nella speranza che il prezzo del barile rimbalzi restituendo ossigeno alle proprie casse e scongiurando misure drastiche, il gruppo di Descalzi ha messo in campo una cura profonda e l’ha fatto ancor prima che il crollo del greggio rendesse la virata non più differibile.
Se si guarda, infatti, alle decisioni implementate dal management, il primo, importante, cambio di passo risale a un anno fa, a luglio. Quando, a pochi mesi dalla sua nomina, il numero uno Descalzi cominciò a mettere in campo, con l’aggiornamento dell’ultimo piano industriale presentato dal precedente management - e la crisi del settore non si era ancora manifestata in tutta la sua gravità - i primi tasselli di quella trasformazione, che allora si era resa necessaria soprattutto per ristrutturare quei business, a eccezione dell’esplorazione e produzione, reduci da anni di perdita, e che, a distanza di mesi, si è rivelata assai lungimirante.
Quel mix di strategia, imperniato sulla focalizzazione forte sull’upstream (il motore del gruppo che continua ad alimentare una consistente generazione di cassa), sul riassetto profondo del mid e downstream (gas, raffinazione e chimica), affiancati da una maggiore selettività negli investimenti e da una politica di efficientamento dei costi (con un piano stringente di spending review), ha quindi consentito all’Eni di cominciare a dotarsi anzitempo delle “armi” necessarie per fronteggiare il terremoto che, di lì a poco, avrebbe investito l’oil and gas. A fronte del quale, Descalzi, predisponendo poi il nuovo business plan, presentato a marzo nel cuore della City, ha ribadito e rafforzato quella rotta i ncassando il plauso del mercato che ha premiato evidentemente la coerenza strategica tra la dinamica complessa del comparto e le scelte predisposte dal gruppo. E una chiara cartina di tornasole sulla bontà della direzione imboccata è arrivata proprio dall’appuntamento londinese dove, si ricorderà, Eni annunciò il taglio della cedola (da 1,12 a 0,80 euro per azione), battendo una strada diversa dalle altre - che erano ricorse a forme di remunerazione ibrida degli azionisti come lo scrip dividend, pagato cioè in azioni della società - ed estremamente difficile. Una via che il mercato ha però mostrato di apprezzare, preferendola ad altre soluzioni all’apparenza meno traumatiche, perché inserita in una strategia di lungo termine, volta ad assicurare al gruppo le energie necessarie per resistere ad un eventuale scenario prolungato di prezzi bassi del barile e a fare in modo che la stessa sia in grado di continuare a investire senza doversi indebitare, ma facendo leva sul proprio cash flow operativo - supportato dalla solida performance industriale corroborata dai successi esplorativi -, che ha raggiunto a fine 2014 il livello record degli ultimi sei anni (15,09 miliardi di euro e 5,7 miliardi già nei primi sei mesi di quest’anno).
Nessuna formula alternativa sulla cedola, quindi, come hanno fatto le concorrenti, che però dovranno presto fare i conti (salatissimi) con la crisi, ma una strategia accorta e - altro aspetto che non è passato inosservato agli occhi degli addetti ai lavori e degli investitori - velocità di esecuzione da parte del management che, in poco più di un anno, ha saputo
IL CONFRONTO Chi ha investito nel gruppo di Descalzi ha guadagnato, da gennaio a oggi, circa il 20% in più di chi ha puntato sulle major inglesi o americane
raddrizzare la rotta anche in quei business che, come detto, erano in perdita da anni, anticipando tutti gli obiettivi programmati. Con il gas che è tornato a girare in positivo, anche sulla scia della rinegoziazione dei contratti a lungo termine, tutti rivisti per garantire una migliore competitività del portafoglio. E con la raffinazione e la chimica che, grazie a un processo di ristrutturazione tutt’altro che indolore, rivedranno il pareggio operativo già quest’anno, in anticipo, rispettivamente, di due anni e di un anno, rispetto alla deadline originaria. Segno che, su questo versante, la trasforma- zione messa in campo è stata portata avanti senza indugi e con estrema rapidità. Senza contare poi i benefici derivanti dal taglio dei costi (con un miglioramento di cassa già per 1,4 miliardi) e dalla rimodulazione degli investimenti che l’Eni ha deciso di concentrare soprattutto su progetti a elevato valore e dal ritorno accelerato, rifocalizzandosi sul suo core business: quell’upstream che marcia a pieni giri (con tassi di crescita della produzione di oltre il 7%) e che, a giudicare dagli ultimi successi esplorativi (dal mega-giacimento di Zohr, in Egitto, appena rinvenuto, al campo di Perla nel Golfo del Venezuela, fino all’Eldorado del Mamba mozambicano, solo per citarne alcuni scorrendo a ritroso la storia più recente di Eni), rappresenta un driver cruciale per il futuro del gruppo. Anzi, l’ultimo tassello in ordine di tempo - la scoperta nell’offshore egiziano, annunciata a fine agosto, con un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas in posto (5,5 miliardi di barili di olio equivalente) e alla quale gli analisti hanno attribuito, a livello di stime preliminari, un valore che si aggira trai3 ei 4,5 miliardi di euro -, dimostra una volta di più che ha pagato la scelta del gruppo di insistere nella ricerca nelle aree mature di paesi conosciuti da decenni (e in Egitto l’Eni di Enrico Mattei sbarcò nel lontano 1954) e di puntare solo su idrocarburi convenzionali e su progetti di facile sviluppo che permettano una rapida commercializzazione. Anche su quest’ultimo fronte, il gruppo, sfruttando l’expertise del proprio personale e l’avanzata capacità tecnologica, ha staccato le colleghe perché molte di queste scoperte, a cominciare proprio da Zohr, sono arrivate da asset, spesso offerti in partnership ad altri competitor che hanno però preferito defilarsi o avevano già perforato negli stessi punti, ma con esiti fallimentari.
Insomma, la scelta di ristrutturare con decisione alcuni business, di scommettere sempre più sul proprio motore e di cedere tutto ciò che non risulta più core, è risultata finora vincente. Ed è chiaro che, a questo punto, i riflettori del mercato continueranno a essere puntati sul gruppo per capire quali mosse future, anche sul fronte dismissioni, - a cominciare dalla soluzione che sarà adottatata sul fronte Saipem - saranno predisposte per rafforzare la direzione intrapresa fin da luglio dello scorso anno, che, come ha ribadito lo stesso ad in più occasioni in questi mesi, servirà ad assicurare la tenuta del gruppo nel prossimo quadriennio, anche nello scenario più nefasto.