Occupazione, il miracolo incompiuto
Il livello di povertà (15% della popolazione) resta ai massimi da cinquant’anni
L’America ha un tasso di senza lavoro sceso al 5,1% e ha creato 1,7 milioni di nuovi impieghi da gennaio - culmine dei 12,6 milioni nati dal 2010 a oggi. Sono questi i grandi numeri di un mercato del lavoro citato tra le migliori dimostrazioni della ripresa dell’economia e che dovrebbero essere lo strumento principe per sanare le profonde ferite aggravate dalla crisi, l’ingiustizia sociale, l’emarginazione e la miseria. L’altra faccia dell’America, però, ha i connotati di una povertà che da cinque anni rimane inchiodata ai massimi da 52 anni, quasi il 15% della popolazione, 47 milioni di persone, 10 milioni più del 2007. Con un esercito simile che soffre di quel brutto vizio che chiamano insicurezza alimentare, la fame.
È ormai, la disoccupazione, a livelli che la Federal Reserve in passato aveva considerato “naturali”. Di solo mezzo punto sopra la media del biennio precedente la grande recessione. Eppure qualcosa che preoccupa c’è e parecchio, anche i tecnici. A convincere la Fed al vertice del 16 e 17 settembre che era meglio aspettare prima di far scattare la prima stretta monetaria in nove anni ha contribuito, non in piccola misura, proprio l’occupazione. Lo stimolo dei tassi a zero, ha detto il presidente della Fed Janet Yellen, ancora oggi «mette la gente al lavoro».
La qualità del risanamento, infatti, rimane oggi al centro di dubbi e polemiche: il tasso di partecipazione alla forza lavoro è fermo ai minimi dagli anni Settanta, tradendo la presenza di ampie sacche di americani sco- raggiati e usciti anche dalle statistiche. Salari e redditi medi sono a loro volta stagnanti, sintomo della persistente incertezza e scarso potere contrattuale dei dipendenti tipico di fasi ancora depresse. I segni di progresso, certo, sono sotto gli occhi di tutti. Dai massimi della recessione oltre il 10%, il tasso dei senza lavoro è ormai dimezzato. Nuovi posti di lavoro sono stati creati per 66 mesi consecutivi, un record. Le domande di sussidi di disoccupazione sono da quasi trenta settimane sotto la soglia psicologica delle 300mila unità, la serie più lunga in 40 anni. E un recente indicatore federale delle offerte di lavoro, il Jolt, è balzato il mese scorso ai massimi dal 2000, con un incremento a 5,8 milioni.
Altrettanto forti, però, suonano i campanelli d’allarme. Le assunzioni, sempre stando al Jolt, hanno in realtà frenato il passo di recente, scivolando del 4% in un segno della cautela delle imprese. La partecipazione alla forza lavoro langue anzitutto nella fascia di età cruciale: per gli americani tra i 25 e i 54 anni di età è scesa all’80,7% dall’83% di otto anni or sono. La mappa regionale vede la disoccupazione diminuire solo in 29 Stati su 50, con estremi dal 7,6% in West Virginia e del 2,8% in Nebraska. Le opportunità di lavoro appaiono inoltre concentrate agli opposti dello spettro, gli impieghi ultra-qualificati, ai vertici dell’hi-tech, e quelli a paga minima, lasciando scoperta l’ampia fascia intermedia e contribuendo alla polarizzazione e frammentazione sociale: la preponderanza delle offerte, nove delle dieci categorie in testa alle classifiche del Dipartimento del Lavoro, resta in occupazioni definite a salari bassi o molto bassi. L’allarme suona anche sui compensi: ad agosto le paghe orarie sono salite soltanto del 2,2% ri- spetto ad un anno fa. Un ritmo immutato rispetto ai giorni della disoccupazione ai massimi.
Studi accademici descrivono le fatiche di Sisifo del lavoro nel curare una diseguaglianza che con i più poveri travolge ormai crescenti fasce dei ceti medi, uno dei fenomeni sottesi all’esplosione di candidati outsider e di protesta nella politica e nella corsa alla Casa Bianca, il costruttore Donald Trump fra i repubblicani e il socialista Bernie Sanders fra i democratici. Il Pew Center ha riportato che il 20% più abbiente della popolazione ha il distacco maggiore dal restante 80% in oltre trent’anni. La ricchezza mediana della fascia più agiata (i redditi oltre i 132mila dollari l’anno) è di 639.400 dollari, sette volte più dei ceti medi (con redditi sopra i 44mila dollari), il cui patrimonio ristagna ai livelli del 1983, e 70 volte superiore alle famiglie meno abbienti.
La concentrazione della ricchezza è ancor più accentuata negli studi del National Bureau of Economic Research: lo 0,1% degli americani controlla il 22% della ricchezza nazionale, rispetto al 7% del 1979. La quota in mano al 90% è invece in costante contrazione dagli anni Ottanta. Allargando lo sguardo, il 3% detiene il 54% del totale contro il 45% del 1989 mentre il 90% meno ricco ha il 25% rispetto al 33% di un quarto di secolo fa. Una sperequazione segnata da pesanti connotati razziali: i bianchi hanno in media patrimoni 13 volte superiori agli afroamericani e 10 volte maggiori degli ispanici, entrambe percentuali peggiorate post-crisi. Il Congressional Budget Office, organismo bipartisan del Parlamento, ha stimato che dal 1979 il reddito reale dell’1% più ricco della popolazione è aumentato cinque volte più velocemente di quello dei ceti medi e medio bassi.
Il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha sottolineato un altro aspetto che aggrava la diseguaglianza e presenta nuovi rischi per il futuro: il fatto che ricchezza e risparmio derivino oggi anzitutto da una corsa al rialzo del valore degli asset anziché da investimenti produttivi. Le azioni, in massima parte possedute dai più facoltosi, hanno guadagnato il 200% dai minimi del 2009. I ceti medi sono stati invece costretti semmai a vendere scarsi asset, da case a pacchetti di risparmio pensionistico, per pagare i debiti. È stata la stessa Yellen, pochi mesi or sono, a liquidare chi si compiaceva troppo della ripresa con una domanda ancora senza risposta, non solo in America: «L’ampiezza e la continua crescita della diseguaglianza mi preoccupa enormemente. È compatibile con i nostri valori?».
I CAMPANELLI D’ALLARME Retribuzioni stagnanti e partecipazione più bassa di otto anni fa. I nuovi posti sono ultra-qualificati o bassi, è scoperta la fascia media