Quando la leadership ammalia cda e sindaci
Personalità forti e scarsa dialettica possono provocare la paralisi dei controlli interni Tutto cambia con la Bce
C’era una volta la banca del territorio. E sopra la banca del territorio c’era il banchiere del territorio. Uno solo. Potente. Indiscusso. Inamovibile. Per definire questo tipo di banca sulle colonne di questo giornale abbiamo coniato un neologismo: « One man bank » . La banca di un uomo solo al comando. Era così la Banca Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani. Era così la Banca Italease di Massimo Faenza, o la Banca delle Marche di Massimo Bianconi. Non molto diversa la Carige di Giovanni Berneschi. Vogliamo continuare? Giovanni Brumana e la Popolare di Intra, la Cassa di Risparmio di Ferrara di Gennaro Murolo. O la Tercas, cassa teramana guidata da Antonio Di Matteo. Banca Etruria, per anni retta da Elio Faralli, e pure la Veneto-Banca del duumvirato ( un’eccezione) formato da Vincenzo Consoli e Flavio Trinca. E last but not least la Banca popolare di Vicen- za di Gianni Zonin. Il segno distintivo di queste banche? L’autoreferenzialità del vertice. Intesa come assenza di contrappesi nell’esecutivo, così come nel cda. Il potere del presidente? Quasi monarchico. Zonin ha fama di divoratore di manager: le « vittime » quasi sempre erano direttori generali o direttori finanziari. Il solo Samuele Sorato, indagato con Zonin, ha resistito più di cinque anni. Un potere che, in banca, sovente viene esercitato da personaggi non privi di una certa dose di fascino personale. Ammaliatori, affabulatori, avvolgenti.
Chi ha avuto occasione di avvicinare Giuseppe Mussari di Mps, Fiorani, Faenza o lo stesso Bianconi, non può non riconoscere loro un « passo » diverso rispetto ai paludati costumi del banchiere tradizionale. Un po’ nobiluomini rinascimentali e un po’ briganti. Banche del territorio, dunque, certo.
Ma forse anche più banche del feudo. E i consiglieri di amministrazione? Perlopiù vassalli. Molti cooptati tra le fila dell’imprenditoria locale. E dunque in molti casi affidati in più o meno palese conflitto d’interesse (articolo 136 Tub), non senza un tocco di teatralità demagogica: l’uscita dalla sala del consiglio nel momento della delibera di affidamento. « Si vota su di me, segretario verbalizzi la mia irrepren- sibilità. Io mi allontano». Quando non affidati a fronte di « provvigioni » sull’erogato da versarsi in « separata sede » . Banca delle Marche si era specializzata nell’erogazione monosettoriale ( edilizia) a prenditori privi di merito di credito. Di Matteo (Tercas) è accusato dalla procura di Roma di avere incassato fee sui prestiti.
E i controlli interni? Laschi. I collegi dei sindaci? Controllabili e apparentemente inconsapevoli della gravità delle responsabilità penali loro attribuite in casi di omessi o carenti controlli. Eppure sono rari i casi di dimissioni di membri di collegi sindacali indispettiti per comportamenti poco ortodossi dei management degli istituti da loro sorvegliati. Nel caso della Vicenza nessuno di loro è indagato. Logica vorrebbe che i magistrati siano ansiosi di sentirli in veste di testimoni e, quindi, senza potere evitare di rispondere alle domande. I rapporti con la magistratura e le altre istituzioni? Coltivati in maniera maniacale. In troppi casi vischiosi. A cominciare dalla Popolare di Lodi, non sono pochi i familiari di alti magistrati requirenti assunti nelle banche.
Noti i rapporti intercorsi tra la palermitana Banca Nuova (controllata al 100% dalla BpVi), il suo ex direttore generale Francesco Maiolini e gli ex procuratori di Palermo e Caltanissetta. Pochi gli immuni alla piagnona contaminazione del «tengo famiglia» come evidenzia l’editoriale di questo giornale: uomini dell’organo di vigilanza assunti o cooptati in banca. Sorveglianti che si mettono al servizio dei sorvegliati. Ora pare che il vento sia girato: soprattutto da quando a esercitare la Vigilanza è il Single supervisory mechanism della Bce guidata da Mario Draghi. E la consapevolezza che ci sia un giudice a Francoforte aiuta.