Unione europea ostaggio di gelosie e calcoli politici
Afronte della folle determinazione dei terroristi, l’Unione europea continua ad essere paralizzata e confusa. Guardiamo i fatti. A distanza di due settimane dall’attacco terroristico a Parigi, la politica di sicurezza dell’Ue rimane prigioniera di gelosie nazionali. Il 13 novembre aveva mostrato come, nonostante il terrorismo fosse entrato da tempo nelle nostre paure, i servizi di sicurezza degli stati membri dell’Ue avessero avuto difficoltà persino allo scambio reciproco delle informazioni. Nonostante ciò, la proposta avanzata pochi giorni fa dalla Commissione europea, di avviare la costituzione di un’Agenzia europea per la sicurezza che integrasse e non sostituisse le agenzie nazionali, è stata subito bocciata dai governi degli stati più grandi con l’accusa di essere “prematura”. Subito dopo il 13 novembre, la Francia ha sì chiamato alla solidarietà gli altri stati membri dell’Ue, ma lo ha fatto appellandosi all’articolo 42(7) del Trattato di Lisbona, ovvero attraverso un articolo squisitamente intergovernativo (contrariamente all’art. 222 dello stesso Trattato), così preservandosi la sua autonomia d’azione. Attraverso l’art. 42 (7) la Francia può intervenire militarmente in Siria ricorrendo a collaborazioni “bilaterali” con l’uno o l’altro degli stati membri dell’Ue. Si è deciso, dunque, di non dare vita ad una missione europea, così come previsto dalla Politica di sicurezza e di difesa comune(Psdc)d el l’ Ue. Stupisce peraltro che l’Alto rappresentante Federica Mogherini, che dovrebbe coordinare la Psdc, abbia accettato una scelta che ci allontana ulteriormente dalla cooperazione militare rafforzata prevista dal Trattato di Lisbona. Il risultato è che gli organismi militari continuano a rispondere ad imperativi nazionali nonostante la necessità di combattere il terrorismo con tutte le forze di cui possiamo disporre.
La stessa cosa avviene nella politica della migrazione e dell’ordine pubblico. Nel Consiglio europeo tenutosi a Malta l’11 e il 12 novembre, i capi di governo non sono riusciti a trovare un accordo sulla gestione dei rifugiati e la loro distribuzione all’interno degli stati membri dell’Ue. Il presidente della Commissione europea Juncker uscì così sconfortato dalla riunione da dichiarare che, di questo passo, il problema verrà risolto solamente alla fine del secolo. Il disaccordo tra gli stati membri dell’Ue è anzi destinato ad accentuarsi. La vittoria del partito sovranista e xenofobo di Legge e ordine nelle elezioni parlamentari polacche del 25 ottobre scorso ha rafforzato ulteriormente il blocco nazionalista all’interno dell’Ue. Il capofila di questo blocco, la Gran Bretagna, in una lettera inviata dal suo premier Cameron al presidente del Consiglio europeo Tusk il 10 novembre scorso, ha formalizzato la richiesta di una revisione dei legami tra il suo paese e l’Ue, in previsione di un referendum che potrebbe interromperli definitivamente. Le voci per sospendere il Trattato di Schengen diventano sempre più rumorose anche nei paesi ricchi dell’Europa occidentale. L’Ue è attaccata dall’esterno ed è contemporaneamente divisa al suo interno. Una divisione che è destinata ad accentuarsi per via dell’inerzia burocratica del suo funzionamento. Ad esempio, la Commissione europea, proprio in questi giorni, ha accelerato la pratica per l’entrata della Serbia nell’Ue, così come ha ripreso in considerazione quella relativa alla Turchia, dopo il viaggio di Angela Merkel in quel paese per chiedere aiuto nella gestione dei rifugiati siriani. Pur lasciando da parte le considerazioni sulla politica interna seguita da quei due paesi, è difficile non capire che tali allargamenti, se avessero luogo, porteranno ad un ulteriore rafforzamento del blocco nazionalista e sovranista all’interno dell’Ue. Basti pensare alla Croazia, l’ultimo paese entrato nell’Ue (2013). Il 1° ottobre scorso, il suo primo ministro Milanovic ha dichiarato: «Io sono contro un’Ue che diventa sempre più unita. Questo è sbagliato. Noi siamo uniti abbastanza… anzi lo siamo troppo».
Di fronte a una Ue divisa al suo interno e minacciata al suo esterno, non c’è stata un’istituzione politica europea e tanto meno un leader politico nazionale che si siano assunti la responsabilità di aprire una discussione sul futuro dell’Ue. L’unico a farlo è stato finora il nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che però non può agire come un capo politico, parlando pochi giorni fa al Parlamento europeo. Quest’ultimo non riesce ad uscire dal cono d’ombra in cui è stato messo dai governi nazionali. A loro volta, i leader politici dei maggiori paesi europei continuano a essere prigionieri delle loro ambizioni, la principale delle quali è quella di essere rieletti. Il presidente francese Hollande usa la sfida del terrorismo per riportare il suo paese ad esercitare un ruolo guida in Europa, ruolo perso nel campo della governance dell’Eurozona. La cancelliera tedesca Merkel si interessa esclusivamente di politica economica, perché lì il suo paese è dominante. Le leadership francesi e tedesche cercano di capitalizzare le crisi, quella militare nel primo caso e quella economica nel secondo, per rafforzare la loro posizione all’interno del proprio paese e quindi la posizione di quest’ultimo all’interno dell’Ue. Dalla loro voce non è uscita una sola idea sul futuro dell’Ue. In assenza di un’iniziativa politica, due sindromi continuano a condizionare l’agenda europea. La prima è la sindrome della difesa dell’Ue così come essa è, in attesa di momenti migliori. Tecnicamente viene chiamata come la logica del “muddling-through”. Preserviamo quello che abbiamo conquistato in 60 anni di integrazione, facendo piccoli adattamenti o anche grandi innovazioni (come l’unione bancaria), ma presentando il tutto come ordinaria amministrazione. Ma per carità non apriamo il vaso di Pandora del riordino dei Trattati perché chissà cosa potrebbe succedere. La seconda è la sindrome della richiesta del rimpatrio di gran parte delle prerogative di politica pubblica trasferite negli anni a Bruxelles. È la sindrome nazionalista che si sta diffondendo nelle opinioni pubbliche di quasi tutti i paesi. Il ragionamento è semplice: se l’Ue non è in grado di difenderci dai terroristi, se l’Eurozona non è in grado di gestire la crisi di un piccolo paese come la Grecia, se le istituzioni europee non sono in grado di governare il flusso di un milione o più di siriani in un continente di mezzo miliardo di abitanti, allora è meglio ritornare ai nostri stati nazionali. Le due sindromi si alimentano reciprocamente. L’inerzia burocratica delle istituzioni europee rafforza il blocco nazionalista all’interno dell’Ue. Se poi i leader dei paesi più grandi pensano primariamente a come vincere le prossime elezioni nazionali, allora sarà difficile trovare una soluzione alla paralisi dell’Ue.
Eppure, l’Ue avrebbe bisogno di un nuovo progetto politico e di leader che lo sappiano rendere credibile. Un progetto che riconosca la differenziazione esistente al suo interno tra l’area del mercato comune e l’area della moneta comune. La prima area potrà anche allargarsi, ma la seconda dovrà necessariamente approfondirsi. È quest’ultima che dovrà costituire il nucleo di un’unione politica europea dotata delle istituzioni e della legittimazione necessarie per garantire la sicurezza dei suoi cittadini, oltre che per governare la loro moneta.