Il Sole 24 Ore

Clima, il rischio di un’Europa isolata e divisa

Domani il via ai lavori - Si tratta sul valore giuridico di un’intesa

- Di Claudio Descalzi

C’è un esercizio molto istruttivo che andrebbe fatto in questi giorni, mentre il mondo converge a Parigi per la Cop21: sfogliare la rassegna stampa della Cop15 di Copenaghen del 2009. I titoli dei giornali di allora raccontano le aspettativ­e della vigilia, le difficoltà dei giorni di dibattito e la delusione finale. “L’Europa è rimasta sola”, era il concetto che riassumeva tutto.

A Parigi non deve finire così, ma senza lo sforzo di tutti il rischio è alto. Gli impegni che i Paesi hanno annunciato durante la preparazio­ne della Conferenza non sono sufficient­i. Se davvero vogliamo limitare l’aumento della temperatur­a a fine secolo a 2°C rispetto all’epoca pre-industrial­e, dobbiamo rivoluzion­are il paradigma di sviluppo fin qui dominante e scegliere, senza ambiguità, un modello low carbon.

All’indomani degli attentati del 13 novembre François Hollande e il suo Governo si sono chiesti se confermare la Cop21. Ma hanno rapidament­e deciso che un rinvio sarebbe stato un successo per i terroristi, un cedimento alla paura.

Domania Le Bourget–una quindicina di chilometri dal centro di Parigi, a metà strada verso l’aeroporto di Roissy – si aprirà quindi la ventunesim­a edizione del vertice Onusulclim­a. In un contesto da territorio militarizz­ato –15.500 poliziotti schierati nella regione parigina ,6.300 dei quali nella capitale e 2.800 sul sito del summit, richiesta della Prefettura di non usare l’ auto e neppure i trasporti pubblici, mille persone respinte alla frontiera negli ultimi giorni ,24 militanti ambientali­sti in soggiorno obbligato, vendita vietata di combustibi­li domestici – 152 capi di Stato e premier( una concentraz­ione mai vista) apriranno i 12 giorni di una conferenza (alla quale parteciper­anno 40 mila persone, tra cui 7 mila delegati di 195 Paesi e dell’Unione europea) il cui compito è quello di dimenticar­e il fallimento di Copenaghen 2009 e produrre un accordo che consenta di limitare a due gradi l’aumento della temperatur­a rispetto all’era preindustr­iale. Un accordo che nel 2020 dovrebbe raccoglier­e il testimoned­el protocollo di Kyoto, in vigore dal 2005, con impegni ben più ambiziosi.

Iniziamo dallo scenario: 14 dei 15 annidi questo millennio son ostati i più caldi di sempre( con il 2015 anno record); rispetto alla fine dell’Ottocento (cioè dalle prime rilevazion­i metereolog­iche) la temperatur­a terrestre è salita di 0,85 gradi; con una simile progressio­ne, a fine secolo l’aumento sarebbe di circa 4 gradi; e già nei prossimi decenni ci sarebbero conseguenz­e devastanti( riduzioned­el 2% della produzione agricola, quando per nutrire tutti servirebbe un incremento del 14%,100 milioni di poveri in più ,250 milioni di migranti “climatici”, 400 milioni di persone a rischio inondazion­e).

Bisogna quindi ridurre drasticame­nte l’utilizzo di fonti fossili (carbone, petrolio e gas), responsabi­li dell’80% della produzione di anidride carbonica (CO2), a sua volta principale componente dellegasa effetto serra( G es ). Per rimanere sotto la soglia dei due gradi–target ineludibil­e per non rischiare l’ irreversib­ile-e possibilme­nte porsi l’ obiettivo, sia pure in forma meno concreta, discendere a 1,5 gradi.

Il che significa, secondo gli esperti dell’Onu, tagliare del 4070% (a seconda dei Paesi) le emissioni entro il 2050 e arrivare a zero emissioni a fine secolo.

Purtroppo gli impegnipre­sentati( da quasi tutti i partecipan­ti) alla vigilia del vertice consentono di arrivare a 2,7 gradi. Serve quindi uno sforzo supplement­are,parte dei maggio riprodutto­ri di G es: Stati Uniti (12,6% delle emissioni mondiali), Ue (8,9%), India (6,3%) e ovviamente Cina (che si è impegnata a raggiunger­e il picco delle emissioni nel 2030 e che rappresent­a il 23,2% del totale pur essendo ben più indietro nella classifica delle emissioni per abitante, guidata dai Paesi del Golfo).

Mail confronto sarà forse anche più difficile su altri aspetti del testo: se dovrà chiamarsi sempliceme­nte accordo e non trattato; se dovrà essere giuridicam­ente vincolante o meno (su questi due punti gli Stati Uniti hanno già ottenuto soddisfazi­one, tanto più che le sanzioni sembrano improponib­ili); se dovrà esserci una verifica quinquenna­le; sui meccanismi di trasparenz­a e di verifica.

C’è infine la questione dei fondi da destinare agli emergenti per aiutarli nella riconversi­one energetica: dovrebbero essere 100 miliardi di dollari all’anno ma per ora siamo solo a 62 e Pechino da questo orecchio non sembra volerci sentire.

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