Clima, il rischio di un’Europa isolata e divisa
Domani il via ai lavori - Si tratta sul valore giuridico di un’intesa
C’è un esercizio molto istruttivo che andrebbe fatto in questi giorni, mentre il mondo converge a Parigi per la Cop21: sfogliare la rassegna stampa della Cop15 di Copenaghen del 2009. I titoli dei giornali di allora raccontano le aspettative della vigilia, le difficoltà dei giorni di dibattito e la delusione finale. “L’Europa è rimasta sola”, era il concetto che riassumeva tutto.
A Parigi non deve finire così, ma senza lo sforzo di tutti il rischio è alto. Gli impegni che i Paesi hanno annunciato durante la preparazione della Conferenza non sono sufficienti. Se davvero vogliamo limitare l’aumento della temperatura a fine secolo a 2°C rispetto all’epoca pre-industriale, dobbiamo rivoluzionare il paradigma di sviluppo fin qui dominante e scegliere, senza ambiguità, un modello low carbon.
All’indomani degli attentati del 13 novembre François Hollande e il suo Governo si sono chiesti se confermare la Cop21. Ma hanno rapidamente deciso che un rinvio sarebbe stato un successo per i terroristi, un cedimento alla paura.
Domania Le Bourget–una quindicina di chilometri dal centro di Parigi, a metà strada verso l’aeroporto di Roissy – si aprirà quindi la ventunesima edizione del vertice Onusulclima. In un contesto da territorio militarizzato –15.500 poliziotti schierati nella regione parigina ,6.300 dei quali nella capitale e 2.800 sul sito del summit, richiesta della Prefettura di non usare l’ auto e neppure i trasporti pubblici, mille persone respinte alla frontiera negli ultimi giorni ,24 militanti ambientalisti in soggiorno obbligato, vendita vietata di combustibili domestici – 152 capi di Stato e premier( una concentrazione mai vista) apriranno i 12 giorni di una conferenza (alla quale parteciperanno 40 mila persone, tra cui 7 mila delegati di 195 Paesi e dell’Unione europea) il cui compito è quello di dimenticare il fallimento di Copenaghen 2009 e produrre un accordo che consenta di limitare a due gradi l’aumento della temperatura rispetto all’era preindustriale. Un accordo che nel 2020 dovrebbe raccogliere il testimonedel protocollo di Kyoto, in vigore dal 2005, con impegni ben più ambiziosi.
Iniziamo dallo scenario: 14 dei 15 annidi questo millennio son ostati i più caldi di sempre( con il 2015 anno record); rispetto alla fine dell’Ottocento (cioè dalle prime rilevazioni metereologiche) la temperatura terrestre è salita di 0,85 gradi; con una simile progressione, a fine secolo l’aumento sarebbe di circa 4 gradi; e già nei prossimi decenni ci sarebbero conseguenze devastanti( riduzionedel 2% della produzione agricola, quando per nutrire tutti servirebbe un incremento del 14%,100 milioni di poveri in più ,250 milioni di migranti “climatici”, 400 milioni di persone a rischio inondazione).
Bisogna quindi ridurre drasticamente l’utilizzo di fonti fossili (carbone, petrolio e gas), responsabili dell’80% della produzione di anidride carbonica (CO2), a sua volta principale componente dellegasa effetto serra( G es ). Per rimanere sotto la soglia dei due gradi–target ineludibile per non rischiare l’ irreversibile-e possibilmente porsi l’ obiettivo, sia pure in forma meno concreta, discendere a 1,5 gradi.
Il che significa, secondo gli esperti dell’Onu, tagliare del 4070% (a seconda dei Paesi) le emissioni entro il 2050 e arrivare a zero emissioni a fine secolo.
Purtroppo gli impegnipresentati( da quasi tutti i partecipanti) alla vigilia del vertice consentono di arrivare a 2,7 gradi. Serve quindi uno sforzo supplementare,parte dei maggio riproduttori di G es: Stati Uniti (12,6% delle emissioni mondiali), Ue (8,9%), India (6,3%) e ovviamente Cina (che si è impegnata a raggiungere il picco delle emissioni nel 2030 e che rappresenta il 23,2% del totale pur essendo ben più indietro nella classifica delle emissioni per abitante, guidata dai Paesi del Golfo).
Mail confronto sarà forse anche più difficile su altri aspetti del testo: se dovrà chiamarsi semplicemente accordo e non trattato; se dovrà essere giuridicamente vincolante o meno (su questi due punti gli Stati Uniti hanno già ottenuto soddisfazione, tanto più che le sanzioni sembrano improponibili); se dovrà esserci una verifica quinquennale; sui meccanismi di trasparenza e di verifica.
C’è infine la questione dei fondi da destinare agli emergenti per aiutarli nella riconversione energetica: dovrebbero essere 100 miliardi di dollari all’anno ma per ora siamo solo a 62 e Pechino da questo orecchio non sembra volerci sentire.