Un modello contrattuale che valorizzi il risultato
Un modello contrattuale che valorizzi il risultato, sia sul versante della retribuzione che della partecipazione dei lavoratori all’utile aziendale. Dietro le frasi pronunciate dal ministro del Lavoro, c’è una precisa strategia del Governo, che trova applicazione anzitutto in tre misure contenute nella legge di stabilità all’esame della Camera. La manovra 2016 reintroduce la detassazione del premio di risultato, nonchè delle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili di impresa. Insieme all’esenzione fiscale per le prestazioni di welfare contrattatate in azienda.
Il coro di critiche con cui i sindacati hanno accolto le dichiarazioni di Poletti rappresentano un segnale tangibile della delicatezza del tema, che investe anzitutto le relazioni tra le parti sociali. Tra le imprese, al contrario, c’è chi come il vicepresidente di Federalimentare, Leonardo Colavita, ha accolto le frasi del ministro come un «contributo per superare schemi e approcci oramai troppo rigidi rispetto al mutato contesto».
Il Governo sulla materia per il momento ha scelto di non intervenire, per consentire a sindacati e imprese di trovare un accordo complessivo sul nuovo modello contrattuale. Dopo diversi stop and go al tavolo di confronto, la novità è rappresentata dalla volontà espressa dai sindacati di trovare una posizione comune, con il tentativo di elaborare una proposta unitaria da presentare a Confindustria. Si vedrà nelle riunioni tecniche del 2 e del 9 dicembre se effettivamente i sindacati riusciranno a superare le divergenze ricompattandosi su un’unica posizione. Altrimenti, in assenza di un accordo interconfederale, il Governo è pronto a intervenire, esercitando l’ultima delega (rimasta ancora sulla carta) del Jobs act, che prevede l’introduzione del compenso orario minimo nei settori non regolati dai contratti collettivi. Palazzo Chigi potrebbe spingersi più in là introducendo anche in Italia per via legislativa il salario minimo, in sostituzione dei minimi retributivi fissati dai contratti nazionali, e regolando tutta la materia della contrattazione. Nei piani dell’Esecutivo c’è un modello contrattuale che sposta il baricentro sulla contrattazione decentrata per legare sempre più la retribuzione all’andamento dei risultati aziendali, incentivando fiscalmente le quote di salario legate alla crescita di produttività, o al miglioramento delle performance aziendali. In Italia la contrattazione aziendale è poco diffusa tra le piccole imprese e al Sud. Uno studio della Banca d’Italia evidenzia che nel periodo 2002-2012 la quota del salario eccedente i minimi sul totale della retribuzione è stata pari in media al 10,5%, questa quota cresce al crescere della dimensione d’impresa ed è più elevata nell’industria (11,1%). Da questi numeri prende spunto il ragionamento su un possibile riequilibrio delle voci contrattuali che faccia crescere il peso della quota del salario “variabile”, per aumentare il peso della quota contrattata in azienda e, con essa, la partecipazione dei lavoratori ai risultati aziendali.