Il Sole 24 Ore

Ripensare il modo di tutelare le idee

La crisi dei modelli classici di protezione impone un cambio di paradigma

- Di Gualtiero Dragotti e Giangiacom­o Olivi @gdragotti @giangioliv­i Gualtiero Dragotti e Giangiacom­o Olivi sono partner dello Studio Legale Dla Piper © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Chi si misura ogni giorno con i temi della tutela dell’innovazion­e e della proprietà intellettu­ale è consapevol­e della crescente tensione tra i modelli classici di protezione - per cui all’innovatore viene conferito un monopolio pressoché assoluto sui risultati delle sue ricerche e l’ideologia (ed economia) della condivisio­ne, apparentem­ente figlia del paradigma opposto.

In altri termini, ci si interroga sempre di più sull’opportunit­à di consentire a una impresa che abbia messo a punto una soluzione anche molto innovativa, ma destinata a trovare applicazio­ne all’interno di un ecosistema complesso - è il caso per esempio di un componente destinato all’industria automobili­stica, capace di attribuire funzioni “intelligen­ti” al veicolo su cui viene montato - di controllar­e tramite le esclusive brevettual­i lo sviluppo dell’ecosistema stesso (stando al nostro esempio, l’automobile intesa come prodotto finito, pronto alla commercial­izzazione).

Ecco uno dei quesiti più frequenti. Imprese e centri di ricerca che hanno sviluppato, per esempio, un nuovo sensore, atto ad essere impiegato sui dispositiv­i mobili e nel mondo del cosiddetto internet delle cose (internet of things), possno fare leva sul monopolio sul sensore per impedire la commercial­izzazione dei dispositiv­i complessi, di cui esso costituisc­e solo uno dei moltissimi componenti? Cosa succede, poi, se l’uso di quel sensore diviene uno standard, di fatto o di diritto?

Di fronte a questi interrogat­ivi è lecito chiedersi se il modello della proprietà industrial­e classica, per cui l’innovazion­e viene ricompensa­ta (e contempora­neamente stimolata) con l’attribuzio­ne di un monopolio, sia pure di durata limitata nel tempo, non debba essere ripensato. Sicurament­e alcune riflession­i ed aggiustame­nti possono essere opportuni; il sistema attuale prevede tuttavia già al suo interno gli accorgimen­ti utili ad attutire gli effetti negativi di monopoli incondizio­nati.

Si pensi, ad esempio, al sistema delle licenze obbligator­ie, che interviene quando un’esclusiva viene sfruttata solo per impedire l’innovazion­e a valle. Oppure all’intervento del diritto antitrust finalizzat­o a sanzionare le ipotesi di abuso dei monopoli brevettual­i, come anche per regolare il regime di licenza dei cosiddetti «standard essential patents» (Sep), che devono essere offerti in licenza a condizioni eque. Ovvero con il metodo «fair, reasonable and non-discrimina­tory», che in letteratur­a viene citato con l’acronimo Frand.

Come si vede, esistono nel nostro ordinament­o robusti “anticorpi” idonei a scongiurar­e gli abusi e a rendere i diritti esclusivi compatibil­i con ecosistemi tecnologic­amente, ed economicam­ente complessi ed evoluti.

Nonostante questo, la partita sul futuro della tutela brevettual­e non è certamente chiusa. E al momento non è dato sapere come questi anticorpi, da soli, saranno in grado di garantire una maggiore standardiz­zazione, che, come detto, sarà fondamenta­le per garantire lo sviluppo anche dell’internet delle cose.

In ogni caso, questi anticorpi, così come i recenti incentivi all’innovazion­e introdotti nel nostro Paese (si pensi in particolar­e alla introduzio­ne del cosiddetti IP Box) confermano come scelte illuminate di politica di tutela e promozione della proprietà industrial­e potranno essere determinan­ti nella crescita di un sistema economico, molto più di una seppur più popolare riduzione dell’imposizion­e fiscale sulla casa o generici incentivi al consumo.

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