Ripensare il modo di tutelare le idee
La crisi dei modelli classici di protezione impone un cambio di paradigma
Chi si misura ogni giorno con i temi della tutela dell’innovazione e della proprietà intellettuale è consapevole della crescente tensione tra i modelli classici di protezione - per cui all’innovatore viene conferito un monopolio pressoché assoluto sui risultati delle sue ricerche e l’ideologia (ed economia) della condivisione, apparentemente figlia del paradigma opposto.
In altri termini, ci si interroga sempre di più sull’opportunità di consentire a una impresa che abbia messo a punto una soluzione anche molto innovativa, ma destinata a trovare applicazione all’interno di un ecosistema complesso - è il caso per esempio di un componente destinato all’industria automobilistica, capace di attribuire funzioni “intelligenti” al veicolo su cui viene montato - di controllare tramite le esclusive brevettuali lo sviluppo dell’ecosistema stesso (stando al nostro esempio, l’automobile intesa come prodotto finito, pronto alla commercializzazione).
Ecco uno dei quesiti più frequenti. Imprese e centri di ricerca che hanno sviluppato, per esempio, un nuovo sensore, atto ad essere impiegato sui dispositivi mobili e nel mondo del cosiddetto internet delle cose (internet of things), possno fare leva sul monopolio sul sensore per impedire la commercializzazione dei dispositivi complessi, di cui esso costituisce solo uno dei moltissimi componenti? Cosa succede, poi, se l’uso di quel sensore diviene uno standard, di fatto o di diritto?
Di fronte a questi interrogativi è lecito chiedersi se il modello della proprietà industriale classica, per cui l’innovazione viene ricompensata (e contemporaneamente stimolata) con l’attribuzione di un monopolio, sia pure di durata limitata nel tempo, non debba essere ripensato. Sicuramente alcune riflessioni ed aggiustamenti possono essere opportuni; il sistema attuale prevede tuttavia già al suo interno gli accorgimenti utili ad attutire gli effetti negativi di monopoli incondizionati.
Si pensi, ad esempio, al sistema delle licenze obbligatorie, che interviene quando un’esclusiva viene sfruttata solo per impedire l’innovazione a valle. Oppure all’intervento del diritto antitrust finalizzato a sanzionare le ipotesi di abuso dei monopoli brevettuali, come anche per regolare il regime di licenza dei cosiddetti «standard essential patents» (Sep), che devono essere offerti in licenza a condizioni eque. Ovvero con il metodo «fair, reasonable and non-discriminatory», che in letteratura viene citato con l’acronimo Frand.
Come si vede, esistono nel nostro ordinamento robusti “anticorpi” idonei a scongiurare gli abusi e a rendere i diritti esclusivi compatibili con ecosistemi tecnologicamente, ed economicamente complessi ed evoluti.
Nonostante questo, la partita sul futuro della tutela brevettuale non è certamente chiusa. E al momento non è dato sapere come questi anticorpi, da soli, saranno in grado di garantire una maggiore standardizzazione, che, come detto, sarà fondamentale per garantire lo sviluppo anche dell’internet delle cose.
In ogni caso, questi anticorpi, così come i recenti incentivi all’innovazione introdotti nel nostro Paese (si pensi in particolare alla introduzione del cosiddetti IP Box) confermano come scelte illuminate di politica di tutela e promozione della proprietà industriale potranno essere determinanti nella crescita di un sistema economico, molto più di una seppur più popolare riduzione dell’imposizione fiscale sulla casa o generici incentivi al consumo.