Narratori in trincea
Un volume raccoglie, accanto ai protagonisti riconosciuti del racconto in presa diretta della Grande Guerra, altri ottimi autori meno noti
Come viene raccontata la grande guerra, in presa diretta, dagli scrittori italiani? Questa domanda sta alla base del volume della nuova collana Ricciardi (diretta da Carlo Ossola e pubblicata dall’Enciclopedia italiana) magistralmente curato da Emma Giammattei, con la collaborazione di Gianluca Genovese: a lui si devono la cura filologica dei testi, le note e la ricca bibliografia, un vero e proprio strumento di lavoro, utile anche per chi vorrà proseguire le ricerche in un campo che si rivela più ricco e stimolante di quanto in genere si crede. L’ambizione del volume è infatti quella di mostrare come, intorno al tema del racconto della grande guerra, si possa ricostruire anche un intero settore della nostra storia letteraria: accanto a protagonisti riconosciuti, si propongono autori meno noti, di cui si rivendica la qualità letteraria (come Luigi Ambrosini), oppure si offrono testi finora trascurati, o passati ingiustamente in secondo piano. Costante è inoltre l’attenzione all’intreccio che l’esperienza letteraria ha con le questioni politiche e filosofiche che vivono nel cuore di un’esperienza storica complessa e tragicamente densa di futuro.
Nello stesso tempo si rifiuta di adottare l’ottica del poi, ci si vuole confrontare piuttosto con la mappa degli anni della guerra, dai suoi presentimenti (ben rappresentati nel romanzo di Alfredo Panzini) fino a Viva Caporetto di Malaparte , del 1921, un testo provocatorio e ricco di analisi di impressionante lucidità. Per questo l’ottica, come si diceva, è quella della presa diretta, del racconto scritto da subito, di prima mano: di qui la scelta della prima edizione, della «prima volta», non di quella rivista e ricorretta, riaggiustata sotto la spinta di diversi fattori, politici e\o stilistici, oppure censurata. Si attira insomma l’attenzione sul fatto che i libri della grande guerra sono diversi da quelli sulla grande guerra .
Si è inoltre scelto di proporre testi completi, con una ricca annotazione che si avvale di epistolari, di ricerche di archivio, dei rimandi che si creano fra i testi stessi e, naturalmente, dei giornali. La grande guerra sperimenta infatti il potere della comunicazione di massa (si pensi a D’Annunzio, al trionfo della «nuova retorica», e alla «guerra dei giornalisti» stigmatizzata da Croce) e molti testi proposti nascono come corrispondenze giornalistiche. L’idea della «mobilitazione totale» ha del resto nei giornali una grande cassa di risonanza.
Punto di partenza della ricca introduzione e filo rosso che si dipana attraverso i testi è il rapporto fra l’evento e il «racconto», tra la realtà, l’esperienza e la possibilità, o meno, di rappresentarla e di narrarla. Un tema che di recente ha appassionato gli storici, soprattutto nel mondo anglosassone, e che qui viene ripercorso in chiave italiana (e insieme europea): il topos della «battaglia inconoscibile», non narrabile, si nutre di una forte memoria letteraria, che ha al centro, naturalmente, il Tolstoj di Guerra e pace, ma che convoca anche Maupassant e Kipling e soprattutto Stendhal. Si ricorda ad esempio la discussione che su questi temi (e su altri ad essi legati) coinvolge due dei protagonisti di questo libro, Renato Serra e Benedetto Croce: il primo invia il manoscritto della sua Partenza di un gruppo di soldati per la Libia a Croce, che gli aveva mandato la memoria Storia cronaca e false storie. Se la battaglia (e tanto più la guerra) non si può prevedere e pianificare, se il punto di vista di chi vive e osserva quell’esperienza è necessariamente parziale, accecato e frammentario, per cui la battaglia non si può conoscere, né ricordare, e quindi tanto meno narrare, ne conseguiranno, anche dal punto di vista formale, scelte diverse: la denuncia della impossibilità della narrazione oppure la descrizione in presa diretta, con un realismo frammentato (le note prese a lapis sul taccuino, ad esempio), o ancora un racconto di singoli episodi e esperienze che non rinuncia a leggervi un senso più profondo.
La questione teorica della possibilità o meno di raccontare la battaglia (e la guerra) acquista così, attraverso la lettura dei testi, una particolare densità, declinata com’è nel vivo delle diverse scritture. Si vede bene ad esempio come una guerra partita fra grandi entusiasmi, spesso ispirati dal mito della battaglia eroica e risolutiva, impone da subito una ben diversa realtà: quella dei massacri inutili, del logoramento della vita di trincea, dove in primo piano viene la tragica evidenza del corpo martoriato; si tratta dunque di una guerra, come ha notato Giuseppe Galasso, che consuma il mito della battaglia di cui si era nutrita.
Pur nella diversità degli accenti e delle soluzioni stilistiche, molto forte resta il senso della distanza fra i nostri letterati e la massa dei soldati, per lo più analfabeti e portatori di una grande varietà linguistica. Di tutto questo, come ha osservato Luca Serianni, resta ben poco: i dialettismi compaiono qua e là come semplici note di colore e, se la trincea appare come una culla, i soldati vengono percepiti come fanciulli; il rapporto con loro si configura come quello pedagogico fra maestro e discepolo, fra madre e bambino. Il riconoscimento del nemico, anche del nemico morto, è difficile, è un punto di arrivo, anche quando in comune c’è la lettura. Esemplare in questo senso è l’incontro di Soffici con il cadavere di un austriaco che leggeva Schopenhauer: «giacevano, l’uno accanto all’altro, tre cadaveri, tumefatti, lividi, il viso e le mani abbruciacchiati senza più nulla di umano. Sembravano tre mucchi di cenci o di spazzatura… Accanto a quello che m’era più vicino, biancheggiava un libro nuovo, che più tardi raccolsi e portai con me. Era Il Mondo come Volontà e Rappresentazione di Shopenhauer, in una di quelle edizioni di gusto tedesco, linde, corrette e odiose. Se lo spettacolo che m’era davanti non fosse stato tanto accorante, ci sarebbe stato da ridere, a veder la sorte toccata a quel lettore pessimista. Ma no, non era il momento di ridere. La morte in battaglia, è così vicina a tutti, che ci si sente portati a rispettarla anche nel nemico».