Raccontare il naufragio
«L’enigmatica frenesia/ di chi per morte s’imbarca/ come su di un’arca/ di libertà, coi bisogni/ stretti alla vita e i sogni/ zavorra viavia/ da gettare» cattura gli emigranti siciliani descritti da Stefano D’Arrigo in Pregreca - poemetto che apre Codice siciliano, pubblicato nel 1957, nel ’78 e ora ristampato - ma potrebbe anche descrivere le donne e gli uomini, i bambini che a centinaia di migliaia vengono a morire sulle stesse coste da cui partivano i nostri nonni, bisnonni e trisnonni, milioni di «cafoni» «ammucchiati/ o clandestini nelle stive/ di necropoli come navi olearie».
Gli odierni protagonisti della più grande crisi migratoria degli ultimi settant’anni hanno cercato di raccontarli con prospettive molto diverse almeno quattro libri usciti questo autunno. Si parte con il punto di vista di uno studente che, in Luminusa, di Franca Cavagnoli, va a vivere a Lampedusa per rendersi utile e - come accadeva a chi si avvicinava al “cimitero dei barconi”, ora raso al suolo - è impressionato dagli oggetti, scarpe, vestiti, rimasti nelle carcasse delle bagnarole fracassate dai naufragi, da quelli che porta a riva il mare, dalle foto arrotolate nelle camicie degli annegati. Li raccoglie, immagina le storie di coloro di cui gli oggetti sono l’ultima traccia e le trasforma in didascalie. Con alcuni amici decide di farne un museo, che alla fine non troverà una sede ufficiale per paura che qualcuno possa sfruttare persino la morte di queste persone. Luminusa è una sorta di romanzo ambientato nella realtà. Accanto ai racconti portati con sé dai sopravvissuti si narra la protesta di un ragazzo contro la politica dell’immigrazione, la gestione della crisi e più in generale l’ipocrisia della società. Emergono il coraggio e l’umanità del sindaco Giusi Nicolini (che non viene chiamata per nome) e degli altri isolani che si trovano a tu per tu con i naufraghi, una solidarietà offuscata dalla paura che i turisti rinuncino a quelle spiagge luminose per evitare di confrontarsi con una realtà che non vogliono vedere.
È un romanzo anche I migranti, dell’autore e artista marocchino Youssouf Amine Elalamy. Questa volta però il punto di osservazione si sposta dall’altra parte del Mediterraneo: è quello degli abitanti di un villaggio che vedono i figli e i mariti partire in cerca di fortuna e tornare portati dalle onde, mangiati dai pesci. Nel capitolo più commovente immagina una madre avanzare a passi piccolissimi verso la spiaggia perché arrivi più tardi possibile il momento dopo il quale non le sarebbe rimasto che far finta di respirare, di nutrire il suo corpo, di svegliarsi. Sotto un cielo che non porta più pioggia Elalamy fa vivere tredici storie di migranti inventati perché l’ipocrisia di chi, anche nel suo paese, non vuole vedere, non trasformi il naufragio nella notizia di «due bagnanti imprudenti annegati vicino Bnidar». Cosa porta la gente a rischiare tutto per oltrepassare il confine, si chiede l’autore, «esisto ancora abbastanza per partire, mamma», afferma un ragazzo.
L’ammasso di eventi che precede ogni addio, e ne è la miccia, è l’interrogativo con cui si apre anche La frontiera, di Alessandro Leogrande. Il testo più ricco ed esaustivo fra quelli elencati, anche il più straziante. Non è un romanzo, ma un reportage, anche se molto diverso da quello magistrale che scrisse Fabrizio Gatti nel 2007 (Bilal, Rizzoli) quando, fintosi un clandestino, attraversò il Sahara con i trafficanti d’uomini lasciando una testimonianza incandescente, difficile da sopportare, difficile da dimenticare. Leogrande non ha varcato confini, né il Mare di Mezzo: di viaggi ne ha fatti centinaia, ma di riflesso, raccogliendo da vent’anni le storie di chi è sopravvissuto e di chi no, indagando nei loro racconti le spaventose violenze perpetrate lungo il tragitto e nel Sinai, dove i migranti, già comprati e rivenduti diverse volte, sono imprigionati e torturati per costringere i parenti a inviare soldi; dove si putrefanno i cadaveri malamente ricuciti di quelli a cui, non potendo pagare il riscatto, hanno prelevato gli organi. Leogrande ricorda a noi italiani l’iprite, con cui intossicammo a morte gli etiopi, e i campi di concentramento che aprimmo in Eritrea per raccontarci che ora negli stessi luoghi si trovano quelli della dittatura di Isaias Afewerki. Di crimini contro l’umanità, ha stabilito l’Onu, si macchia questo paese trasformato in una prigione a cielo aperto dove gli aguzzini usano ancora i nomi delle torture che furono praticate dagli italiani. Ogni giorno centinaia di giovani tentano la fuga in un’odissea che pochissimi raccontano per la brutalità inaudita di quello che hanno subito e per la presenza, in tutta Europa, di agenti segreti che aspettano solo di accanirsi sui parenti rimasti in patria (la storia di alcuni di questi ragazzi che arrivarono a Lampedusa il 3 ottobre 2013 è la trama di un altro romanzo, Gli angeli non sono tutti bianchi, di Francesco Nicolino). Leogrande si concentra poi sulla bestialità delle politiche italiane ed europee, compreso il cosiddetto “Processo di Khartoum”, accordo che prevede che per fermare i profughi si cerchi l’aiuto delle dittature da cui scappano, promettendo ad Afewerki centinaia di milioni di euro per imprigionare ulteriormente il suo popolo. Libri come questi sarebbe utile leggerli nelle scuole, per combattere la fobia da invasione, del diverso, per essere confrontati con la nostra comune umanità. Ma sono testi che mostrano anche come a fare naufragio con i migranti siano le idee stesse su cui fondiamo la nostra civiltà.