Il cardinale dei fratelli ebrei
Gli scritti di Agostino Bea (autorevole porporato protagonista del Concilio Vaticano II) aprirono la strada a un nuovo e cordiale rapporto tra cattolicesimo ed ebraismo
Ne conservo ancora il ricordo “visivo”: una figura alta, segaligna, incurvata dall’età, segnata da uno sguardo mite, spesso accompagnato dal sorriso. Ai miei occhi di giovane studente di teologia all’Università Gregoriana la persona del cardinale Agostino Bea era alonata di una fama e di una sorta di venerazione che era condivisa da tutti nella Chiesa cattolica ma che, in quegli anni del Concilio Vaticano II, si allargava anche alle altre confessioni cristiane, ortodosse e protestanti, e aveva il suo apice in un mondo che era stato non di rado in reciproca tensione col cattolicesimo, quello ebraico. Era stato lui, biblista di grande levatura, a condurre i vescovi – non senza contrasti interni nella stessa assise conciliare – alla celebre dichiarazione Nostra Aetate «sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane», e in particolare a quel paragrafo 4 dedicato al «vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo» attraverso un «patrimonio spirituale comune tanto grande».
Quel testo affrontava anche il nodo rovente della condanna di Gesù da parte del Sinedrio, un nodo così vigoroso da aver generato una scia di odio e di sangue fisico e verbale (si pensi alla famosa classificazione di “popolo deicida”, oppure alla locuzione “perfidi giudei” del rito del Venerdì Santo): «Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperati per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo». Per questo «la Chiesa deplora gli odii, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque». Era il 28 ottobre 1965 quando fu approvata dall’assemblea conciliare questa dichiarazione, ma purtroppo ancor oggi non mancano in certi ambiti cristiani oltranzisti rigurgiti antiebraici, incapaci di comprendere la qualità irreversibile del passo compiuto dal Concilio perché fondato non su una scelta strategica ma su una ragione teologica, essendo «i doni e la chiamata di Dio [nei confronti di Israele] irrevocabili», come affermava san Paolo nella Lettera ai Romani (11,29).
È, perciò, importante che si ripropongano in una nuova edizione le riflessioni teologiche del cardinal Bea su questa tematica, apparse in italiano per la prima volta già nel 1966. Particolarmente suggestiva è la foto di copertina che vede l’incontro “familiare” a New York nel 1963 tra il vecchio cardinale e il grande pensatore mistico ebreo polacco-americano Abraham Joshua Heschel, l’autore di testi celebri come Il sabato o I profeti o L’uomo alla ricerca di Dio. Le pagine di questo volume si aprono proprio con la ricostruzione della “movimentata storia” che aveva contrassegnato l’iter della citata dichiarazione conciliare (la stessa votazione ufficiale finale, su 2312 votanti, vide ancora 88 no). Poi, però, lo sguardo si apre all’orizzonte teologico, a partire dal tema dell’elezione di Israele sbocciata in Abramo, padre nella fede anche per i cristiani, e raffigurata dall’apostolo Paolo in quell’immagine sorprendente dell’olivo e dell’olivastro, contraria a ogni prassi agraria ma logica nella prospettiva religiosa ebraico-cristiana (si legga Romani 11,16-24).
Il cuore del libro è, però, proteso verso quell’evento centrale della storia e della fede cristiana che è paradossalmente divenuto una pietra d’inciampo per le relazioni tra ebrei e cristiani, la crocifissione di Gesù. Sfilano tutte le questioni che pulsano in quel cuore: la citata contraddittoria accusa di deicidio rivolta contro il popolo ebraico e la relativa responsabilità collettiva nell’atto del Golgota, la posizione di Israele davanti a Dio perché, come ribadiva Paolo, il Signore non ha ripudiato il popolo della promessa e dell’alleanza. Ma Bea affronta temi ancor più radicali a livello teologico: il valore redentivo della morte di Cristo per tutti gli uomini, la sua scelta volontaria di andare incontro alla morte per amore dell’umanità, la grazia come dono universale.
Tutta questa elaborazione teologica, che regge e commenta l'essenzialità del documento conciliare e che sfocia in un appello a un impegno ecclesiale pastorale nella vita e nell’azione dei cristiani, fiorisce dal retroterra culturale e spirituale della biografia del cardinal Bea. Egli era nato nel 1881 a Riedböringen in Germania, si era fatto gesuita nel 1902 ed era stato avviato agli studi biblici divenendone docente presso la maggiore istituzione accademica cattolica dedicata a questa disciplina che è teologica, storica e letteraria, il Pontificio Istituto Biblico di Roma, del quale fu anche Rettore per un ventennio. Fu lui ad approntare la base testuale di un’enciclica fondamentale per l’esegesi e la teologia biblica, la Divino Afflante Spiritu, emessa da Pio XII nel 1943.
Creato cardinale nel 1959 da Giovanni XXIII, fu nominato presidente del neonato Segretariato per l’unione dei cristiani al cui interno fu collocato anche il dialogo col mondo ebraico, come accade ancora oggi in quello che è divenuto il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, attualmente retto da un cardinale svizzero, Kurt Koch. La sua fu, dunque, l’opera di un pioniere dell’ecumenismo e del dialogo ebraicocristiano e questo fu sicuramente favorito non solo dal prestigio di cui godeva la sua personalità ma anche dalla sua matrice culturale legata allo studio delle Sacre Scritture ebraiche, comuni anche alla cristianità. Da allora è trascorso oltre mezzo secolo e l'atmosfera è certamente cambiata in senso positivo. Tuttavia alcune questioni, allora accantonate o comunque meno urgenti, si sono ulteriormente aggrovigliate, come fa osservare con qualche accento critico nella sua prefazione Piero Stefani: un particolare riferimento merita il piano etnico-politico che era stato accuratamente evitato dal cardinal Bea e dalla stessa dichiarazione conciliare, ma che il partner ebraico presenta ora non di rado in modo netto, creando non pochi risvolti anche in sede teologica.
Si tratta appunto del tema spinoso della “Terra d'Israele” che non riguarda solo le relazioni diplomatiche, per altro più che ventennali, tra S. Sede e Stato d’Israele o la tutela della presenza delle comunità arabe cristiane in quello stesso Stato, ma che si ramifica anche in territori di natura squisitamente teologica, come il nesso tra politica e religione o come il carattere e il significato universale di Gerusalemme e della Terrasanta. Tuttavia, al di là delle differenti coordinate storiche e dei nuovi contesti contemporanei, una figura come quella di Agostino Bea merita simbolicamente l’elogio che l’autore della neotestamentaria Lettera agli Ebrei – che pure segnava una discontinuità tra l’antica e la nuova Alleanza biblica e che quindi rivelava già allora la delicatezza e complessità del dialogo ebraico-cristiano – attribuisce alle grandi guide della fede cristiana: «Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno comunicato la parola di Dio. Considerando attentamente l'esito finale della loro vita, imitatene la fede» (13,7). Agostino Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Morcelliana, Brescia, pagg. 164, € 16,50.
Così scrisse: «La Chiesa deplora gli odii, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo»