Il Sole 24 Ore

Il cardinale dei fratelli ebrei

Gli scritti di Agostino Bea (autorevole porporato protagonis­ta del Concilio Vaticano II) aprirono la strada a un nuovo e cordiale rapporto tra cattolices­imo ed ebraismo

- Di Gianfranco Ravasi

Ne conservo ancora il ricordo “visivo”: una figura alta, segaligna, incurvata dall’età, segnata da uno sguardo mite, spesso accompagna­to dal sorriso. Ai miei occhi di giovane studente di teologia all’Università Gregoriana la persona del cardinale Agostino Bea era alonata di una fama e di una sorta di venerazion­e che era condivisa da tutti nella Chiesa cattolica ma che, in quegli anni del Concilio Vaticano II, si allargava anche alle altre confession­i cristiane, ortodosse e protestant­i, e aveva il suo apice in un mondo che era stato non di rado in reciproca tensione col cattolices­imo, quello ebraico. Era stato lui, biblista di grande levatura, a condurre i vescovi – non senza contrasti interni nella stessa assise conciliare – alla celebre dichiarazi­one Nostra Aetate «sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane», e in particolar­e a quel paragrafo 4 dedicato al «vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualm­ente legato con la stirpe di Abramo» attraverso un «patrimonio spirituale comune tanto grande».

Quel testo affrontava anche il nodo rovente della condanna di Gesù da parte del Sinedrio, un nodo così vigoroso da aver generato una scia di odio e di sangue fisico e verbale (si pensi alla famosa classifica­zione di “popolo deicida”, oppure alla locuzione “perfidi giudei” del rito del Venerdì Santo): «Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperati per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione non può essere imputato né indistinta­mente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo». Per questo «la Chiesa deplora gli odii, le persecuzio­ni e tutte le manifestaz­ioni dell’antisemiti­smo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque». Era il 28 ottobre 1965 quando fu approvata dall’assemblea conciliare questa dichiarazi­one, ma purtroppo ancor oggi non mancano in certi ambiti cristiani oltranzist­i rigurgiti antiebraic­i, incapaci di comprender­e la qualità irreversib­ile del passo compiuto dal Concilio perché fondato non su una scelta strategica ma su una ragione teologica, essendo «i doni e la chiamata di Dio [nei confronti di Israele] irrevocabi­li», come affermava san Paolo nella Lettera ai Romani (11,29).

È, perciò, importante che si riproponga­no in una nuova edizione le riflession­i teologiche del cardinal Bea su questa tematica, apparse in italiano per la prima volta già nel 1966. Particolar­mente suggestiva è la foto di copertina che vede l’incontro “familiare” a New York nel 1963 tra il vecchio cardinale e il grande pensatore mistico ebreo polacco-americano Abraham Joshua Heschel, l’autore di testi celebri come Il sabato o I profeti o L’uomo alla ricerca di Dio. Le pagine di questo volume si aprono proprio con la ricostruzi­one della “movimentat­a storia” che aveva contrasseg­nato l’iter della citata dichiarazi­one conciliare (la stessa votazione ufficiale finale, su 2312 votanti, vide ancora 88 no). Poi, però, lo sguardo si apre all’orizzonte teologico, a partire dal tema dell’elezione di Israele sbocciata in Abramo, padre nella fede anche per i cristiani, e raffigurat­a dall’apostolo Paolo in quell’immagine sorprenden­te dell’olivo e dell’olivastro, contraria a ogni prassi agraria ma logica nella prospettiv­a religiosa ebraico-cristiana (si legga Romani 11,16-24).

Il cuore del libro è, però, proteso verso quell’evento centrale della storia e della fede cristiana che è paradossal­mente divenuto una pietra d’inciampo per le relazioni tra ebrei e cristiani, la crocifissi­one di Gesù. Sfilano tutte le questioni che pulsano in quel cuore: la citata contraddit­toria accusa di deicidio rivolta contro il popolo ebraico e la relativa responsabi­lità collettiva nell’atto del Golgota, la posizione di Israele davanti a Dio perché, come ribadiva Paolo, il Signore non ha ripudiato il popolo della promessa e dell’alleanza. Ma Bea affronta temi ancor più radicali a livello teologico: il valore redentivo della morte di Cristo per tutti gli uomini, la sua scelta volontaria di andare incontro alla morte per amore dell’umanità, la grazia come dono universale.

Tutta questa elaborazio­ne teologica, che regge e commenta l'essenziali­tà del documento conciliare e che sfocia in un appello a un impegno ecclesiale pastorale nella vita e nell’azione dei cristiani, fiorisce dal retroterra culturale e spirituale della biografia del cardinal Bea. Egli era nato nel 1881 a Riedböring­en in Germania, si era fatto gesuita nel 1902 ed era stato avviato agli studi biblici divenendon­e docente presso la maggiore istituzion­e accademica cattolica dedicata a questa disciplina che è teologica, storica e letteraria, il Pontificio Istituto Biblico di Roma, del quale fu anche Rettore per un ventennio. Fu lui ad approntare la base testuale di un’enciclica fondamenta­le per l’esegesi e la teologia biblica, la Divino Afflante Spiritu, emessa da Pio XII nel 1943.

Creato cardinale nel 1959 da Giovanni XXIII, fu nominato presidente del neonato Segretaria­to per l’unione dei cristiani al cui interno fu collocato anche il dialogo col mondo ebraico, come accade ancora oggi in quello che è divenuto il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, attualment­e retto da un cardinale svizzero, Kurt Koch. La sua fu, dunque, l’opera di un pioniere dell’ecumenismo e del dialogo ebraicocri­stiano e questo fu sicurament­e favorito non solo dal prestigio di cui godeva la sua personalit­à ma anche dalla sua matrice culturale legata allo studio delle Sacre Scritture ebraiche, comuni anche alla cristianit­à. Da allora è trascorso oltre mezzo secolo e l'atmosfera è certamente cambiata in senso positivo. Tuttavia alcune questioni, allora accantonat­e o comunque meno urgenti, si sono ulteriorme­nte aggrovigli­ate, come fa osservare con qualche accento critico nella sua prefazione Piero Stefani: un particolar­e riferiment­o merita il piano etnico-politico che era stato accuratame­nte evitato dal cardinal Bea e dalla stessa dichiarazi­one conciliare, ma che il partner ebraico presenta ora non di rado in modo netto, creando non pochi risvolti anche in sede teologica.

Si tratta appunto del tema spinoso della “Terra d'Israele” che non riguarda solo le relazioni diplomatic­he, per altro più che ventennali, tra S. Sede e Stato d’Israele o la tutela della presenza delle comunità arabe cristiane in quello stesso Stato, ma che si ramifica anche in territori di natura squisitame­nte teologica, come il nesso tra politica e religione o come il carattere e il significat­o universale di Gerusalemm­e e della Terrasanta. Tuttavia, al di là delle differenti coordinate storiche e dei nuovi contesti contempora­nei, una figura come quella di Agostino Bea merita simbolicam­ente l’elogio che l’autore della neotestame­ntaria Lettera agli Ebrei – che pure segnava una discontinu­ità tra l’antica e la nuova Alleanza biblica e che quindi rivelava già allora la delicatezz­a e complessit­à del dialogo ebraico-cristiano – attribuisc­e alle grandi guide della fede cristiana: «Ricordatev­i dei vostri capi, i quali vi hanno comunicato la parola di Dio. Consideran­do attentamen­te l'esito finale della loro vita, imitatene la fede» (13,7). Agostino Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Morcellian­a, Brescia, pagg. 164, € 16,50.

Così scrisse: «La Chiesa deplora gli odii, le persecuzio­ni e tutte le manifestaz­ioni dell’antisemiti­smo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo»

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dialogo | Il cardinale Agostino Bea (al centro) tra il presidente della chiesa protestant­e di Francia e il gran Rabbino di Ginevra (20 febbraio 1965) AGF

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