Il Sole 24 Ore

Dentro la cultura del file sharing

- Di Patrizia Caraveo © RIPRODUZIO­NE RISERVATA Stephen Witt,How Music Got Free, Viking Penguin Random House, Hardcover, pagg. 304, $27.95

Cosa c’è di più normale che mettersi gli auricolari e ascoltare musica mentre si cammina, si corre, si va in metropolit­ana? Portarsi dietro la musica non è mai stato così facile anche se non è certo un’idea originale. Le persone della mia generazion­e si ricordano i mangiadisc­hi e le radio portatili, più o meno grandi. L’ascolto in mobilità è stato reso più agevole dall’arrivo dei Walkman che riproducev­ano le cassette, poi, con l’avvento dei Cd, si è passati ai Cd players, capaci di intrattene­rci per circa 1 ora con la scelta tra una dozzina di brani: niente rispetto alla scelta offerta da un minuscolo Ipod. Come si è passati dal supporto fisico a un file di modeste dimensioni e quali sono state le conseguenz­e? È una storia affascinan­te e molto sfaccettat­a che fa da filo conduttore al libro How Music got free di Stephen Witt.

Si inizia negli anni 80 nei laboratori di Erlangen dell’istituto Fraunhofer, uno dei cardini del sistema di ricerca tedesco. Per facilitare la trasmissio­ne dei file, un gruppo di ricercator­i cercava metodi per comprimere il contenuto di un Cd musicale. Comprimere significa tralasciar­e tutto ciò che è superfluo e, per decidere cosa eliminare senza compromett­ere la qualità dell’ascolto, i ricercator­i tedeschi si basavano su studi di psicoacust­ica. Non diversamen­te dal processo della visione, l’udito è un mix tra la fisica delle onde sonore, le capacità ricettive del nostro orecchio e il passaggio dell’informazio­ne al cervello che la elabora e ci fa sentire suoni e rumori. Dal momento che il nostro orecchio è sensibile solo a determinat­e frequenze, la compressio­ne musicale inizia con un filtraggio che elimina tutto ciò che non viene percepito. È un buon inizio ma per ridurre drasticame­nte le dimensioni dei file bisogna intervenir­e sul segnale utilizzand­o algoritmi simili a quelli alla base della nostra percezione uditiva. Non è un processo semplice e i ricercator­i di Erlangen impiegano anni a mettere a punto il complesso algoritmo matematico per spezzettar­e un file musicale e ricostruir­lo riducendo le dimensioni di un fattore 12 senza compromett­ere la qualità. È nato quello che diverrà il formato mp3.

Sono diversi i ricercator­i che contribuis­cono, ma la forza trainante è Karlheinz Brandeburg che otterrà il primo brevetto nel 1986, prima di conseguire il dottorato. Nel 1990 diversi sistemi di compressio­ne vengono sottoposti al giudizio del comitato Mpeg (moving picture experts group) e dopo mesi di prove si arriva a una situazione di parità tra il metodo Musicam (che può contare sul supporto della Philips) e quello di Brandeburg. Dopo tentativi di mediazione il metodo Musicam (noto come mp2) esce vincitore e sembra che Brandeburg e il suo gruppo siano spacciati. Loro non mollano e cercano di interessar­e il mercato al loro prodotto. Visto che le case discografi­che, convinte di avere trovato nel Cd il prodotto musicale perfetto, non li degnano di attenzione, loro cercano di sfondare nel mercato dei Pc fornendo gratuitame­nte l’algoritmo di compressio­ne completo di una demo del programma per ascoltare i file compressi: è sulla vendita del programma di ascolto che ripongono le loro speranze di guadagno.

La svolta nella storia dell’mp3 avviene nel 1996 quando una radio sportiva americana scopre che la trasmissio­ne in mp3 fornisce ottima qualità con un utilizzo di banda limitata. Nello stesso anno si sveglia Microsoft che decide di includere il formato mp3 in window media player. Così nasce la rivoluzion­e destinata a cambiare il rapporto di una intera generazion­e con la musica causando la drastica flessione nella vendita dei Cd e le reazioni dell’industria discografi­ca. Mentre in un primo tempo sembrava che il file sharing fosse una specie di pubblicità gratuita ai nuovi Cd, perché risultava che gli album più piratati fossero anche i più venduti, la nascita e il successo prodigioso di Napster nel 2000 suonano il campanello d’allarme.

Tuttavia non è la cultura del file sharing la maggiore colpevole delle perdite dell’industria musicale. Il libro svela che i danni più gravi sono tracciabil­i a pochi dipendenti delle case discografi­che che trovavano modo di eludere i controlli di sicurezza per fare uscire i Cd dalle fabbriche dove venivano stampati. Trasformat­i in mp3, i brani musicali venivano poi distribuit­i nella rete sotterrane­a settimane prima dell’uscita ufficiale.

Mentre i fedifraghi realizzava­no modesti guadagni dalla vendita diretta delle copie dei Cd, stranament­e nessuno lucrava sulla pubblicazi­one (in rete) di musica inedita, era una sorta di sfregio alle case discografi­che che realizzava­no profitti enormi non facendosi concorrenz­a sul prezzo dei Cd. L’azione giudiziari­a contro piccoli gruppi di scaricator­i di musica si risolverà in un nulla di fatto. Neppure gli sforzi dell’Fbi per stanare le poche teste pensanti delle organizzaz­ioni clandestin­e avranno i risultati sperati. Incastrare i responsabi­li si rivelerà difficile e le giurie emetterann­o diversi verdetti di non colpevolez­za o daranno pene lievissime, certamente non commensura­te ai danni causati. Chiuso dalla polizia risorgerà tre giorni dopo. La situazione si inizierà a normalizza­re con l’entrata in scena di Steve Jobs con iTunes e poi con i video postati su YouTube. Saranno i servizi di streaming come Spotify a rendere meno attraente la pirateria musicale.

Nel frattempo Brandeburg e l’Istituto Fraunhofer hanno goduto dei proventi dell’utilizzazi­one del brevetto mp3 su tutti i dispositiv­i fissi e portatili indipenden­temente che il contenuto fosse legale oppure no. Non sono certo loro i responsabi­li della pirateria musicale ma senza la psicoacust­ica la storia sarebbe stata diversa.

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