Dentro la cultura del file sharing
Cosa c’è di più normale che mettersi gli auricolari e ascoltare musica mentre si cammina, si corre, si va in metropolitana? Portarsi dietro la musica non è mai stato così facile anche se non è certo un’idea originale. Le persone della mia generazione si ricordano i mangiadischi e le radio portatili, più o meno grandi. L’ascolto in mobilità è stato reso più agevole dall’arrivo dei Walkman che riproducevano le cassette, poi, con l’avvento dei Cd, si è passati ai Cd players, capaci di intrattenerci per circa 1 ora con la scelta tra una dozzina di brani: niente rispetto alla scelta offerta da un minuscolo Ipod. Come si è passati dal supporto fisico a un file di modeste dimensioni e quali sono state le conseguenze? È una storia affascinante e molto sfaccettata che fa da filo conduttore al libro How Music got free di Stephen Witt.
Si inizia negli anni 80 nei laboratori di Erlangen dell’istituto Fraunhofer, uno dei cardini del sistema di ricerca tedesco. Per facilitare la trasmissione dei file, un gruppo di ricercatori cercava metodi per comprimere il contenuto di un Cd musicale. Comprimere significa tralasciare tutto ciò che è superfluo e, per decidere cosa eliminare senza compromettere la qualità dell’ascolto, i ricercatori tedeschi si basavano su studi di psicoacustica. Non diversamente dal processo della visione, l’udito è un mix tra la fisica delle onde sonore, le capacità ricettive del nostro orecchio e il passaggio dell’informazione al cervello che la elabora e ci fa sentire suoni e rumori. Dal momento che il nostro orecchio è sensibile solo a determinate frequenze, la compressione musicale inizia con un filtraggio che elimina tutto ciò che non viene percepito. È un buon inizio ma per ridurre drasticamente le dimensioni dei file bisogna intervenire sul segnale utilizzando algoritmi simili a quelli alla base della nostra percezione uditiva. Non è un processo semplice e i ricercatori di Erlangen impiegano anni a mettere a punto il complesso algoritmo matematico per spezzettare un file musicale e ricostruirlo riducendo le dimensioni di un fattore 12 senza compromettere la qualità. È nato quello che diverrà il formato mp3.
Sono diversi i ricercatori che contribuiscono, ma la forza trainante è Karlheinz Brandeburg che otterrà il primo brevetto nel 1986, prima di conseguire il dottorato. Nel 1990 diversi sistemi di compressione vengono sottoposti al giudizio del comitato Mpeg (moving picture experts group) e dopo mesi di prove si arriva a una situazione di parità tra il metodo Musicam (che può contare sul supporto della Philips) e quello di Brandeburg. Dopo tentativi di mediazione il metodo Musicam (noto come mp2) esce vincitore e sembra che Brandeburg e il suo gruppo siano spacciati. Loro non mollano e cercano di interessare il mercato al loro prodotto. Visto che le case discografiche, convinte di avere trovato nel Cd il prodotto musicale perfetto, non li degnano di attenzione, loro cercano di sfondare nel mercato dei Pc fornendo gratuitamente l’algoritmo di compressione completo di una demo del programma per ascoltare i file compressi: è sulla vendita del programma di ascolto che ripongono le loro speranze di guadagno.
La svolta nella storia dell’mp3 avviene nel 1996 quando una radio sportiva americana scopre che la trasmissione in mp3 fornisce ottima qualità con un utilizzo di banda limitata. Nello stesso anno si sveglia Microsoft che decide di includere il formato mp3 in window media player. Così nasce la rivoluzione destinata a cambiare il rapporto di una intera generazione con la musica causando la drastica flessione nella vendita dei Cd e le reazioni dell’industria discografica. Mentre in un primo tempo sembrava che il file sharing fosse una specie di pubblicità gratuita ai nuovi Cd, perché risultava che gli album più piratati fossero anche i più venduti, la nascita e il successo prodigioso di Napster nel 2000 suonano il campanello d’allarme.
Tuttavia non è la cultura del file sharing la maggiore colpevole delle perdite dell’industria musicale. Il libro svela che i danni più gravi sono tracciabili a pochi dipendenti delle case discografiche che trovavano modo di eludere i controlli di sicurezza per fare uscire i Cd dalle fabbriche dove venivano stampati. Trasformati in mp3, i brani musicali venivano poi distribuiti nella rete sotterranea settimane prima dell’uscita ufficiale.
Mentre i fedifraghi realizzavano modesti guadagni dalla vendita diretta delle copie dei Cd, stranamente nessuno lucrava sulla pubblicazione (in rete) di musica inedita, era una sorta di sfregio alle case discografiche che realizzavano profitti enormi non facendosi concorrenza sul prezzo dei Cd. L’azione giudiziaria contro piccoli gruppi di scaricatori di musica si risolverà in un nulla di fatto. Neppure gli sforzi dell’Fbi per stanare le poche teste pensanti delle organizzazioni clandestine avranno i risultati sperati. Incastrare i responsabili si rivelerà difficile e le giurie emetteranno diversi verdetti di non colpevolezza o daranno pene lievissime, certamente non commensurate ai danni causati. Chiuso dalla polizia risorgerà tre giorni dopo. La situazione si inizierà a normalizzare con l’entrata in scena di Steve Jobs con iTunes e poi con i video postati su YouTube. Saranno i servizi di streaming come Spotify a rendere meno attraente la pirateria musicale.
Nel frattempo Brandeburg e l’Istituto Fraunhofer hanno goduto dei proventi dell’utilizzazione del brevetto mp3 su tutti i dispositivi fissi e portatili indipendentemente che il contenuto fosse legale oppure no. Non sono certo loro i responsabili della pirateria musicale ma senza la psicoacustica la storia sarebbe stata diversa.