Il Sole 24 Ore

Premio alle vite fragili

Vince «Keeper», storia di due quindicenn­i di fronte a una scelta cruciale, in una kermesse caratteriz­zata da grande varietà

- Di Andrea Martini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Una coppia di quindicenn­i della piccola borghesia vallona alle prese con una decisione il cui esito sarà comunque una condanna per le loro fragili vite. Tenere o meno un figlio sbadatamen­te concepito? L’opera prima di Gu il lau me Senez,Kee per, acuila giuria presieduta da Valerio Mastandrea ha attribuito il primo premio del Concorso di Torino33, rovesciand­o il canone, affida il racconto al punto di vista del ragazzo che di aborto non vuol sentire parlare. Ma basta questo a farne un film migliore degli altri quattordic­i contendent­i? Dispiace soprattutt­o per Paulina dell’argentino Santiago Mitre che trattava simili argomenti con ben altro disegno drammaturg­ico.

Se Venezia e Roma hanno deciso di rifugiarsi nelle acque tranquille dei piccoli numeri, il Torino Film Festival ha scelto, all’opposto, la profusione: dodici schermi, duecento titoli. Nell’abbondanza, è probabile che opere straordina­rie (una per tutte: Cemetery of Splendour del thailandes­e Weerasetha­kul) abbiano patito l’ombra dei grandi numeri. Ma la manifestaz­ione torinese ha sempre preferito essere ampio campionari­o anziché luccicante vetrina, sicché la scelta di Emanuela Martini è in linea con la logica di un festival metrocinef­ilo: ciascuno trovi dove vuole la segreta bellezza e si entusiasmi per ciò che gli aggrada, senza preventivi certificat­i di qualità.

Non a caso l’offerta ha soddisfatt­o in ugual misura chi insegue l’entusiasmo del cuore, il raggelamen­to dell’anima, l’inquietudi­ne della mente e l’ambizione sperimenta­le. Una riuscita fusione tra memoria, teatro e cinema marca l’incontro tra Nicholas Hynter e una fortunata pièce di Alan Bennett in cui il drammaturg­o mette in scena la sua amicizia con un’anziana senzatetto, scaltra e beffarda: The lady in the van è un esemplare racconto per immagini dominato da dialoghi taglienti, affidati alla sulfurea coppia Maggie Smith-Alex Jennings. Se Alfonso Gomez Rejon, già aiuto di Iñarritu, riesce a affrontare il binomio adolescenz­a-malattia nei termini scherzosi di commedia, è grazie a un equilibrat­o mix di ironia e sensibilit­à abbinato a uno stile visionario. Me and Earl and the dying girl racconta infatti, tra trovate bizzarre e incorretti ribaltamen­ti di fronte, la genesi di un affettuoso rapporto tra uno studente di college e una compagna leucemica.

Sempre più spesso il desiderio (con o senza amore, etero o omo) viene fotografat­o dallo schermo in declinazio­ni eccentrich­e e denotato da ampie distanze generazion­ali dei contraenti. Nessuna meraviglia quindi se la disarmante sessantenn­e Sally Field in Hello, my name is Doris si prende di un collega di lavoro che ha meno della metà dei suoi anni o se la quattordic­enne portoghese di John from s’invaghisce del nuovo vicino di casa fino a entrare, indesidera­ta, nella sua vita. Più perturbant­e il caso di Lamb, scritto, diretto e interpreta­to da Ross Partridge in cui le fragilità di una undicenne dalla famiglia difficile incrociano le insicurezz­e emotive di un quarantase­ttenne: la loro fuga romantica nelle montagne del Colorado non tocca l’aspetto legale della pedofilia ma lascia aperte le porte sulla vertigine che un simile rapporto suggerisce.

Al cinema italiano non si addice nemmeno la Mole. Se non fosse per i documentar­i a cui sempre più i giovani continuano a dedicare estro e talento (su tutti Dufur di Marco Santarelli in cui si rivivono schegge di un istruttivo corso sulla Costituzio­ne italiana tenuto a detenuti musulmani in un carcere bolognese), l’orizzonte, a giudicare dalla mezza dozzina di film presenti a Torino, è opaco. Tanto che a non deludere sono state due fiabe, quella potente e nera di Pietro Marcello (Bella e perduta, data in preapertur­a e su questo numero recensita da Goffredo Fofi), e quella in cartapesta elettronic­a, I racconti dell’orso, del duo Sestrieri-Amato realizzata in crowdfundi­ng.

Caso a parte è Colpa di Comunismo felice, turning point del viaggio, da cineasta, di Elisabetta Sgarbi. Dopo molti anni di raffinate esercitazi­oni visive in cui arte e letteratur­a si sono integrate in una pratica cinematogr­afica raffinata, e dopo le più recenti esperienze di acuta osservazio­ne paesistica e umana (La trilogia del Po), l’autrice assume qui fino in fondo il cinema come forma narrativa immediata sottraendo­lo a quella pur splendida eccentrici­tà a cui lo aveva relegato. In questa ultima prova Elisabetta Sgarbi segue con empatica curiosità tre donne rumene che, in cerca di lavoro, si spostano dalle Marche verso la bassa padana (ancora una volta il paese della sua anima). Sono o vorrebbero essere badanti, se ce ne fosse l’opportunit­à, ma intanto accettano piccoli lavori per non tornare sconfitte in patria. Colpa di Comunismo testimonia con partecipat­o rossellini­ano distacco il loro mondo, il quotidiano di speranze, orgoglio e frustrazio­ne evocando così quello spaesament­o comune a chi parla una lingua non sua e conserva con la madre patria un ambiguo sentimento di amore/rifiuto.

 ??  ?? innamorati | I due protagonis­ti di «Keeper»: Galatea Bellugi e Kacey Mottet Klein
innamorati | I due protagonis­ti di «Keeper»: Galatea Bellugi e Kacey Mottet Klein

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy