Premio alle vite fragili
Vince «Keeper», storia di due quindicenni di fronte a una scelta cruciale, in una kermesse caratterizzata da grande varietà
Una coppia di quindicenni della piccola borghesia vallona alle prese con una decisione il cui esito sarà comunque una condanna per le loro fragili vite. Tenere o meno un figlio sbadatamente concepito? L’opera prima di Gu il lau me Senez,Kee per, acuila giuria presieduta da Valerio Mastandrea ha attribuito il primo premio del Concorso di Torino33, rovesciando il canone, affida il racconto al punto di vista del ragazzo che di aborto non vuol sentire parlare. Ma basta questo a farne un film migliore degli altri quattordici contendenti? Dispiace soprattutto per Paulina dell’argentino Santiago Mitre che trattava simili argomenti con ben altro disegno drammaturgico.
Se Venezia e Roma hanno deciso di rifugiarsi nelle acque tranquille dei piccoli numeri, il Torino Film Festival ha scelto, all’opposto, la profusione: dodici schermi, duecento titoli. Nell’abbondanza, è probabile che opere straordinarie (una per tutte: Cemetery of Splendour del thailandese Weerasethakul) abbiano patito l’ombra dei grandi numeri. Ma la manifestazione torinese ha sempre preferito essere ampio campionario anziché luccicante vetrina, sicché la scelta di Emanuela Martini è in linea con la logica di un festival metrocinefilo: ciascuno trovi dove vuole la segreta bellezza e si entusiasmi per ciò che gli aggrada, senza preventivi certificati di qualità.
Non a caso l’offerta ha soddisfatto in ugual misura chi insegue l’entusiasmo del cuore, il raggelamento dell’anima, l’inquietudine della mente e l’ambizione sperimentale. Una riuscita fusione tra memoria, teatro e cinema marca l’incontro tra Nicholas Hynter e una fortunata pièce di Alan Bennett in cui il drammaturgo mette in scena la sua amicizia con un’anziana senzatetto, scaltra e beffarda: The lady in the van è un esemplare racconto per immagini dominato da dialoghi taglienti, affidati alla sulfurea coppia Maggie Smith-Alex Jennings. Se Alfonso Gomez Rejon, già aiuto di Iñarritu, riesce a affrontare il binomio adolescenza-malattia nei termini scherzosi di commedia, è grazie a un equilibrato mix di ironia e sensibilità abbinato a uno stile visionario. Me and Earl and the dying girl racconta infatti, tra trovate bizzarre e incorretti ribaltamenti di fronte, la genesi di un affettuoso rapporto tra uno studente di college e una compagna leucemica.
Sempre più spesso il desiderio (con o senza amore, etero o omo) viene fotografato dallo schermo in declinazioni eccentriche e denotato da ampie distanze generazionali dei contraenti. Nessuna meraviglia quindi se la disarmante sessantenne Sally Field in Hello, my name is Doris si prende di un collega di lavoro che ha meno della metà dei suoi anni o se la quattordicenne portoghese di John from s’invaghisce del nuovo vicino di casa fino a entrare, indesiderata, nella sua vita. Più perturbante il caso di Lamb, scritto, diretto e interpretato da Ross Partridge in cui le fragilità di una undicenne dalla famiglia difficile incrociano le insicurezze emotive di un quarantasettenne: la loro fuga romantica nelle montagne del Colorado non tocca l’aspetto legale della pedofilia ma lascia aperte le porte sulla vertigine che un simile rapporto suggerisce.
Al cinema italiano non si addice nemmeno la Mole. Se non fosse per i documentari a cui sempre più i giovani continuano a dedicare estro e talento (su tutti Dufur di Marco Santarelli in cui si rivivono schegge di un istruttivo corso sulla Costituzione italiana tenuto a detenuti musulmani in un carcere bolognese), l’orizzonte, a giudicare dalla mezza dozzina di film presenti a Torino, è opaco. Tanto che a non deludere sono state due fiabe, quella potente e nera di Pietro Marcello (Bella e perduta, data in preapertura e su questo numero recensita da Goffredo Fofi), e quella in cartapesta elettronica, I racconti dell’orso, del duo Sestrieri-Amato realizzata in crowdfunding.
Caso a parte è Colpa di Comunismo felice, turning point del viaggio, da cineasta, di Elisabetta Sgarbi. Dopo molti anni di raffinate esercitazioni visive in cui arte e letteratura si sono integrate in una pratica cinematografica raffinata, e dopo le più recenti esperienze di acuta osservazione paesistica e umana (La trilogia del Po), l’autrice assume qui fino in fondo il cinema come forma narrativa immediata sottraendolo a quella pur splendida eccentricità a cui lo aveva relegato. In questa ultima prova Elisabetta Sgarbi segue con empatica curiosità tre donne rumene che, in cerca di lavoro, si spostano dalle Marche verso la bassa padana (ancora una volta il paese della sua anima). Sono o vorrebbero essere badanti, se ce ne fosse l’opportunità, ma intanto accettano piccoli lavori per non tornare sconfitte in patria. Colpa di Comunismo testimonia con partecipato rosselliniano distacco il loro mondo, il quotidiano di speranze, orgoglio e frustrazione evocando così quello spaesamento comune a chi parla una lingua non sua e conserva con la madre patria un ambiguo sentimento di amore/rifiuto.